Skip to main content

Full text of "Giornale storico della letteratura italiana. Supplemento"

See other formats





























Digitized by 


Goosle 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 










, 'é-fs1Sw'v r \V 1 i 1 ii ;• - v • 




























THE UNIVERSITY 


OF ILLINOIS 


LIBRARY 




jiiMffnRwr 




Digitized by 








Originai tram 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
.URBANA-CHAMPAIGN 










Digitized by 



Return this book on or before thè 
Latest Date stamped below. 


University of Illinois Library 



JUN 5i*«n 




I 


I .Ini IMI 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



L U/USY 

* uf m 

UNIVERSI T* UF IL..NUIS 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



t j, , 




Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



GIORNALE STORICO 

DELLA 

LETTERATURA ITALIANA 


SUPPLEMENTO 

isr» ìe 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I 

Of Iht 

JiVlbnilf) Jt (t»ji\0»~ 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILUN 


URBANA-CHAMPAIGN 



GIORNALE STORICO 



DIRETTO E REDATTO 


FRANCESCO NOVATI E RODOLFO RENIER 


SUPPLEMENTO 



TORINO 

Cai» a Editrice 

ERMANNO LOESCHER 

1914 t 


Digitized by Go 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 


PROPRIETÀ LETTERARIA 






ohlVtKi 


0 \ iHt 

Ut of U.U«*‘ * 


Torino — Vikcekzo Boxa, Tip. di 8. M. e de’ RR. Priuei 


gitized by 


Google 


Originai from 

univer: 

URBANA-CK 



338857 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



Giornale storico <I . letter. Hai. - Supplcin. N. IH. 




La chiesa di S. Martino del Vescovo nel 1425 

(dal codice di Marco di liartolonimco Rustichi nel Seminario di Firenze, c. 25 a). 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI 

DEL POPOLO ITALIANO 

• • 

nei secoli XIV e XV. 


Sommario: 1. Introduzione. — 2. I cantastorie. — 3. I cantari. — 4. Il Fiore 
di leggende. — 5. Il bel Gherardino. — 6. Pulzella gaia. — 7. Làmi- 
bruno. — 8. Tre giovani disperati e tre fate. — 9. La donnei del 
Vergiù. — 10. Gibello. — 11. Gismirante. — 12. Bruto di Bretagna. 
— 13. Madonna Lio nesso. — 14. La regina d'Oriente. — 15. Ma¬ 
donna Elena. — 16. Cerbino. — 17. Conclusione. 

I. 

Introduzione. 


Io prego voi che ciaschedun m’intenda, 
però ohe questo è ’l fior della leggenda. 

(Ixi reg . d'Or., Ili, 1, 7). 

Nella piazzetta di S. Martino del Vescovo, a Firenze (1), di 
tra le torri e i palazzi di pietra, per due secoli, dal Trecento 
al Cinquecento, ogni sera risonarono sulla viola dei cantastorie 
i cantari leggendari, ch'io voglio far rivivere in queste mie pa- 


(1) Presso a S. Martino erano anche le case degli Alighieri. E noto quel 
doc. del 1189, nel quale Preitenitto e Alaghiero tìgli di Cacciaguida si ob¬ 
bligano di far tagliare le fronde di certo loro fico che sporgeva sul muro di 
S. Martino. La parrocchia di S. Martino fu soppressa nel 1479 ; e allora la 
chiesa fu trasformata e riacconciata di nuovo. Cfr. G. Kioiia s. J., Notizie isto- 
riehe delle chiese fiorentine divise ne' suoi quartieri, Firenze, 1754, voi. I, 
p. 207 e sgg.; A. Cocchi, Le chiese di Firenze dal sec. XV al XX, voi. I 
(quart. di S. Giovanni), Firenze, 1903, p. 118. 

Giornale storico — Sappi, n* 10. 1 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



2 


E. LEVI 


gine. La plebe si affollava intorno ai una panca, sulla quale poi 
saliva il cantastorie per recitarvi il suo canto: artigiani, bor- 
ghesi e cavalieri, persino gli uomini gravi di scienza e di dot¬ 
trina ivi convenivano da ogni strada e da ogni sesto della città. 
Era uno spettacolo bizzarro e commovente quello della piazza 
gremita in attesa delle ottave del « cantare »; e quando il can¬ 
terino gettava lo sguardo su quel mare di teste, il suo cuore si 
gonfiava d’orgoglio e rocchio sfavillava d'ebbrezza: 


come gode talora un contadino 
quando e’ vede la vigna et le sue prode 
preparata et disposta a far del vino, 
così son io, e l'animo mio gode, 
quand’io sguardo talora in San Martino, 
e veggo tanta nobiltà che m’ode! (1). 


Erano rozzi ed incolti quei poeti plebei; eppure la loro parola, 
squillando tra le facciate di pietra delle vecchio case, aveva in 
quei momenti un tono epico che travolgeva l’anima dell’uditorio. 
Persino gli umanisti, che dovevano sdegnare quell’arte rozza e 
spontanea, si lasciano talvolta sfuggire degli accenti di irrefre- 
nata ammirazione di fronte a quegli uomini cosi diversi da loro. 
Il Verino (2) in una sua lettera ricorda ancora il fremito susci¬ 
tato nel suo cuore dal cantare d’ uno di quei poeti da piazza, 
Antonio di Guido: 

Audìvi ego quondam Antlionium in vico Martini bella Orlandi ca- 
nentcm tanta eloquentia ut Petrarcham audire viderer, ut agi non referri 
bella putares. Legi post carmina eius, inculta ut alia crederes. 


(1) Sono versi d'uno di quei cantampanca, di Cristoforo da Firenze detto 
l’Altissimo, nel cantare LIX del Libro dei Reali ; cfr. R. Remek, Sonetti e 
strambotti dell'Altissimo, Torino, 1886, p. xm n. 

(2) Così una lettera di Michele Verino, Epist. Mi[chaelis] Ve{rini\ Petro 
Ridolpho in Michaelis Verini Epist., L. I, n. 64 nel cod. Laurenz. XC 
super. 29, c. 20 b. Questo passo è indicato e tradotto da V. Rossi, Il (Quat¬ 
trocento, p. 288. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


8 


E il Fontano nel dialogo De fortitudine domestica (1. 2°) con 
pari fervore ci descrive il cantare in panca che faceva tutte le 
domeniche il cieco Niccolò da Arezzo: 

Dii boni, quam audientiam Nicolaus coecus habebat, cui» festis diebus, 
etruscis numeri», aut sacra» historias aut annales rerum antiquarum e sug- 
gestu decantabat! Qui doctorum hominum, qui Florentiae tunc erant, con¬ 
cursus ad eum fiebant! 

Le immagini fantasiose del cantare popolavano la mente del 
popolo durante le fatiche del giorno, gli ozi, i sogni e i riposi ; 
le ottave del cantastorie accompagnavano lo squillo del martello 
e il rombo dell’officina. Il Sacchetti (nov. GXIV) ci racconta d’un 
fabbro di Porta San Piero che battendo sull’ incudine cantic¬ 
chiava la Commedia « come si canta uno cantare e tramestava 
i versi smozzicando e appiccando »; rimproverato dal Poeta, «se 
volle cantare, cantò di Tristano e di Lancellotto e lasciò stare 
il Dante ». Francesco da Buti commentando l'accenno a Ginevra 
e Lancillotto, che è nel quinto canto d e\Y Infamo, sorvola sul¬ 
l'episodio, perchè, dice, « è istoria nota » e la « dicono i can¬ 
tari » (1). Gustoso è l’aneddoto raccontato dal Poggio nelle Fa¬ 
cezie (LXXXI) : un borghese di Milano « un di di festa udì uno 
di quei cantori da piazza, che cantano alla plebe le gesta degli 
eroi; cantava costui della morte di Rolando, che era morto da 
ben settecento anni in battaglia, e quell’uomo prese a piangere 
a calde lagrime; e, quando andò a casa, la moglie che lo vide 
piangente, lo richiese qual novità fosse accaduta. « Ahi, moglie 
mia — disse — son morto! ». « Amico mio — disse la moglie 
— che avversità t’incolse? Vieni dunque a consolarti a cena!». 
Ed egli continuava a piangere, nè voleva prender cibo; final¬ 
mente cedette alle preghiere della moglie e disse la causa del 
suo dolore: « Non sai tu che nuova ho io oggi udita? ». «Quale 


(1) Francisco da Buti, Comtn. sopra ia « Div. Commedia », Pisa, 1858, 
voi. I, p. 171. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



4 


E. LEVI 


mai 1 » — chiese la moglie. — « Egli è morto Kolando, ch'era il 
solo che difendesse i cristiani ! ». A molti uomini dabbene tutto 
quell'apparato fantastico dei cantori faceva dar di volta il cer¬ 
vello; e sognavano colpi sfoggiati, incantesimi, stregherie anche 
quando si richiedeva freddezza di calcolo e spirito pratico. D'un 
« gran cantatore di giostra » ci parla il Sacchetti in un sonetto (1); 
piena la testa di leggende, con un guazzabuglio di parole fran¬ 
cesi e fiorentine, egli gridava di voler scontrare Bacchilone e 
« Ciarlon imperierò » pur correndo per borgo de' Greci e per 
Parione. In un altro sonetto il novelliere si burla ancora delle 
vanterie romantiche e romanzesche dei suoi concittadini, dei 
quali, dice (2), 

ognun vincoria 

Tristano, Lancillotto e i cavalieri 
del re Artù e tutta baronia. 

E chi potrebbe raccontare gli entusiasmi, i rapimenti, gli ar¬ 
dori suscitati dalla leggenda nell'anima femminile? Tutte le dame 
del Trecento dovevano avere una biblioteca press a poco qual’era 
quella della vedova boccaccesca del Corbaccio , tutta ripiena dei 
fatti di Lancillotto, Ginevra, Tristano, di Isotta e di lor pro¬ 
dezze «e i loro amori e le giostre e i torniaraenti e le semblee »(3). 

Ella tutta si strittola quando legge Lancelotto o Tristano o alcuno 
altro colle loro donne nelle camere segretamente e soli raunarsi, si come colei, 
alla quale pare vedere ciò che fanno e che volentieri come di loro imagina. 
così farebbe, avegna che ella faccia sì che di ciò corta voglia sostiene. Legge 
la Canzone dello indovinello e quella di Ilorio e di Biancofiore e simili 
cose assai. 


(1) Son. « Po’ che la giostra le dame straniere » nell’autografo del Sac¬ 
chetti, cod. Laurenz. Ashhurnham. 574, c. 40 a ; pubbl. tra le Poesie inedite 
di Franco Sacchetti, Roma, 1857, p. 33. 

(2) Son. « Firenze bella, confortar ti dei » nell’autografo, c. 3, pubbl. nella 
raccolta del Pr. di Vi Ila rosa, voi. IV, p. 197 e nelle Poesie inedite di 
F. Sacchetti cit., p. 18. 

(3) Il Corbaccio, Parigi, 1569, p. 95. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


5 


II. 

I cantastorie. 


La storia della giulleria italiana è ancor tutta da fare. I do¬ 
cumenti abbondano, ina sono un fascio disordinato, dal quale 
nessuno ancora tentò di compiere una ragionata rassegna, come 
quella che fece il Farai per la letteratura francese (1). Nella 
storia della nostra letteratura i giullari hanno un' importanza 
per lo meno uguale a quella dei predicatori, degli umanisti e 
dei maestri di scuola. In mezzo al tanfo di incenso e di chiuso, 
che appesta le scuole e le sagrestie, i giullari portano una fo¬ 
lata d’aria libera e sana; tra l’uggia delle pedanterie umani¬ 
stiche e le goffaggini fratesche, essi affermano i diritti della 
fantasia sbrigliata e indisciplinata, dello spirito ingenuo e fresco 
della plebe. Più io medito sulle vicende della nostra letteratura, 
e più mi convinco che, pur essendo belle e rispettabili cose le 
cocolle dei frati, i bàtoli degli umanisti, la polvere dei libri e 
le raccolte di classiche anticaglie, solo i giullari durante pa¬ 
recchi secoli furono la letteratura italiana. Se è letteratura 
l’espressione diretta ed immediata dell’ anima del popolo, essi 
soli hauno il diritto di chiamarsi del popolo i rappresentanti 
nella storia ; V altra letteratura, quella delle preziosità e delle 
raffinatezze accademiche, delle disquisizioni sofistiche, dei dibat¬ 
titi di teologia, degli artifici e delle sottigliezze dei cortigiani e 
delle cortigiane, non è l’espressione che di una minoranza ri¬ 
stretta e chiusa, che non ebbe mai, o li perdette assai presto, 
contatti con lo spirito vivo e profondo del popolo italiano. 


* 

(1) E. Farai., Les jongleurs en Vrance au moyen àge ( tìibl . de l'Ecole 
des haute»études, voi. CLXXXVII), Parigi, 1910. Qui è data la bibliografia 
dev’argomento anche per gli altri paesi, romanzi e germanici. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



6 


E. LEVI 


Il piu antico documento sui dicitori dei cantari è quella ben 
nota provvisione degli Anziani del comune di Bologna, che nel 
1289 vietava ai tagliatori di formaggio, ai giuocatori d’azzardo, 
ai biscazzieri e ad altra gente di fermarsi sulle scalèe e sulla 
piazza del comune (1): 

Cum igitur sermoni divino multa reverenda debeatur, quod placeat con- 
scilio et masse populi quod huiusmodi lussores arardi et besca^arie et inci- 
sores casei... nec edam cantatore» fran^iginorum in platea comuni» 
ad cantandum nec in cirronstan^is platee et palladi comuni» omnino murari 
non possint. 

Questa consuetudine dei canterini di soffermarsi a cantare 
sotto il porticato del palazzo del Comune è assai antica, perchè 
anche il giurista Odofredo (f 1203) ricorda certi «joculatores qui 
ludunt in puhlico causa mercedis » e « vadunt in curia comunis 
* Bononie et cantant de domino Rolando et Oliverio» (2): 

... unde domini ioculatores qui ludunt in publico causa mercedis habende 
et domini orbi, qui vadunt in curia comuni» Bon. et cantant de domino ro¬ 
tando et oliverio si prò predo faciunt »unt infames ipso iure quia mercedis 
causa ludibriuiu sui corporis faciunt. 

A Bologna ci richiama un bellissimo documento di qualche 


(1) È nell’Arch. di Stato di Bologna, 1. H, c. 275 b e fu pubblicata molte 

volte, ma una sola con esattezza : da F. Pellegrini, lì serenitene dei Lam- 

bertazzi e dei Geremei, Bologna, 1892, p. 59. Leggo assai spesso nelle storie 

% 

letterarie che quei « cantore» franviginorum » erano dei giullari francesi. E 
uno sproposito tradizionale di cui ha già fatto giustizia il Gasparv ; quei 
€ cantores » erano fior d’italiani, e cantavano di materia francigena. 

(2) Il passo è citato da N. Tamassia, Odofredo, studio storico-giuridico, 
Bologna, 1894, p. 176 w. ed è tolto dal voi.: « Domini Odof 1 fredi in iure 
« absolutissimi | matura, diligentissimeque repetita in j terpretatio, in undecim 
« primos | pandectarum libros etc., Lugduni, MDL, c. 100 b, col. 2* ». — In¬ 
torno a questa testimonianza, che è divenuta assai nota dopo il 1894, cfr. 
P. Mkver, De ì'erpatision de la langue francai se en Italie pendant le moyen 
àge, negli Atti del Congresso intemaz. di scienze storiche, Poma, 1904 
[Sez. di Btoria della lett.], voi. IV, p. 69. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


7 


anno più recente (1). È un processo contro un certo Bonacosa 
dei Forti, detto Cesoia, vinattiere, accusato di aver pronunciato 
parole scandalose e indecenti contro la parte Guelfa e di aver 
insultato e ferito nella strada di Mirasole un certo Ugolino da 
Budrio (2). Cesoia invoca parecchi testimoni in sua difesa: un 
« Agutus tuscanus qui hospitatur ad hospicium Lance de Ga- 
rexendis » e un certo Bonaventura Zamboni, che attesta che nel 
giorno del delitto, Cesoia era ben lungi da via Mirasole « in 
trivio porte Ravenatis ubi cantatur de f'rancesco ad audiendum 
cantare » (3). 

E ancor più interessante è il racconto di un altro teste « Zo- 
parinus cantator qd. Benincaxe »: 


(1) Arch. di Stato di Bologna, quad. Inquisiiionum [1307] della podesteria 
di Gerardo Bostichi da Firenze, n° 515, c. 17-18. Ne devo l’indicazione e gli 
estratti che ora seguono al cav. Giov. Livi, soprintendente di quell’Archivio. 
« — [1307], diejovis xj inadii post nonas incepta fuit inquisitio infrascripta. 
« Hec est quedam inquisitio que fit et fieri intenditur per antcdictum d. Po- 
« testateni Bononie et judicem maleficiorum contra et adversus Cosolam sive 
« Cosam de Fortis qui fuit de Vetrana et nunc habitat Bononie in burgo 
« S. l'etri, in Capella S. Martini de Aposa, sive S. Marie de Mascarela, super 
« eo et ex eo quod ad aures et notitiam predictorum dominorum Potestatis 
« et judicis maletitiorum, fama publica referente et clamosa insinuacene, per- 
« venerit quod dictus Cosola seu Cossa de anno et mense presenti in civitate 
« Bononie et Capella ... [lacuna dell’orìgin.] ... dixit multa verba inepta, 
« indecentia et enonnia in dampnum, detrimentum et subversionem status 
« pacifici Comunis et populi civitatis Bononie et partis Jeremiensium et Guel- 
« forum, videlicet oportet ut isti Anciani et rectores et gubernatores partis 
« Guelfe et Jeremiensium nunc regnantis in civitate Bononie omnino de- 
« struantur et in nichilum deducantur. 

(2) Ib., c. 18 a: * Notifìcatur vobis etc. quod Bonacosa sive Cosa de Fortis 
« qui fuit etc. precio vel precibus Laurenci, cui dicitur Lem;us, filius qd. 
« domini Jacobi de Bonacaptis fuit ad insultandum et vulnerandum cum armis 
« vetitis et non vetitis Ugolinum qd. d. Libertini de Butrio et eum percussit 
« et vulneravit etc. Et predicta fueruntde predicto mense madii in contrata 
< Mirasolis posita Bononie in via publica etc. ». 

(3) Da un fascicolo sciolto di 10 cc. appartenente al quad. Testium della 
podesteria di Gerardo Bostichi da Firenze [1307], non numerato nè cartolato, 
scritto dal not. Dainesio de’ Dainesii da Ferrara, e ritrovato tra altri fram¬ 
menti sincroni dal cav. Livi. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 




8 


E. LEVI 


... «lui» ipse testis vellet incipere cantare post pramliuin, immediate vidit 
dictuin Tosolam una cum Avito de Florentia stratarolo et Andrea can¬ 
tatore de Florentia venientes ad invicem et intrare bandi am 
ubi cantatur super trivio Porte Ravennati», et ibi steterunt usque quasi 
ad horam none et usque quo finitum fuit primum cantare, et finito 
dicto cantare, dicti Cosola et predicti receserunt, et nescit ipse testis quo 
iverint, et postmodum quasi immediate dictus Cosola redivit ad audiendum 
secundum cantare quod incepit pariter post noiias et ibi stetit usque 
quasi ad horam vesprarum... justa Torini de tìaresendis ubi ipse testis can- 
tabat. — Interrogatus de quo cantabat ipse testis, respondit quod ipse oan- 
tabat de Guielmo de Orenga ». 


K sfilano altri testimoni e ciascuno reca qualche nuovo par¬ 
ticolare pittoresco e bizzarro ad integrare la scena di quel can¬ 
tare domenicale; Paolo di Bertolameo « vidit dietimi Cossolam 
« sedere super quodam banche ibi posito ad audiendum cantare 
« de francesco sive de paladino »: 


Interr. in qua parte trivii fuit dietimi cantare et stabat dictus cantatur ad 
cantandum respondit quod in trivio j>orte Ravenatis ad umbram doinorum 
illoruin de Garexendis, sive umbram Ecclesie Sancti Marchi. 


Un altro testimonio riferisce che il cantastorie era zoppo, 
donde probabilmente il nome Zopparino, e che cantava « ut sibi 
videtur, de Guielmo de Orenga » (1); un altro ancora assicura 
di aver visto Cosola « sedente»! super quodam bancho ibi posito 
« ad audiendum cantare » e interrogato di quale leggenda si 
cantasse « respondit quod de francisco, seti non recordatur de quo 
francisco ». Il quadro diventa di mano in mano più compiuto, 
vivace e pittoresco. Siamo nel centro della vecchia Bologna, in 
un trivio affollato, proprio all'ombra della torre Garisenda, dove 
Dante s’era soffermato a guardare le nuvole fuggitive pe’1 cielo 
(Inf., XXXI, 13(5). Nella breve piazza sono collocate delle file 


(1) « Albertus Zanis ile Rayneriis: ...ad audiendum cantare de francisco... 
« Interr. quis cantabat, respondit quod quidam zopus ». 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
-URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


9 


di panche; e vi è una panca più alta destinata al cantore. Le 
panche sono presto riempite dal multicolore pubblico domeni¬ 
cale; cuffie, cappucci, becchetti, guarnacchie, guagnele, oppe- 
lande e farsetti. Allo scoccare dell’ora di nona (alle tre del po¬ 
meriggio) il canterino, che è zoppo e si chiama Zoparino di 
Benincasa, incomincia il suo canto; frammischiato tra la folla 
un altro canterino, Andrea da Firenze, lo sta ad ascoltare. Pas¬ 
sano con ritmo misurato i versi di un cantare; e poi quelli di 
un secondo, finché cala la sera e squillano alla chiesa di San 
Marco le campane del vespro. Gli spettatori, interrogati dal giu¬ 
dice de' maletìzi qualche giorno dopo, più non ricordano con 
precisione l’argomento del cantare; soltanto dicono che si can¬ 
tava « de francisco sive de paladino », cioè di un personaggio 
della leggenda. Due di essi, frugando nella memoria, ricordano 
che quel « paladino » era Guglielmo d’Oringa. 

La leggenda di Guglielmo d’Orange era infatti delle più dif¬ 
fuse e fortunate tra noi; ma al principio del Trecento già in¬ 
cominciava a sfiorire. Sarà utile ch’io richiami queirimportante 
luogo delle glosse ai Documenti duntore di Francesco da Barbe¬ 
rino, dove si passano in rivista i temi leggendari più favoriti (1): 


Tristanuin propterea non obmictes. De paladini* autem loqui hodie vi- 
detur exosum nec multimi cara lectura gestuum Gui 11 e 1 mi de A u ringia 
et similiuin, quorum fabule tam aperta fingunt mendacia. Novitates tamen 
palatij dicti Guillelmi adirne indicant ipsum maglia ferisse. 


Un’altra bella ed antica testimonianza della diffusione dei can¬ 
tari e dei cantastorie nell’ Italia settentrionale si ha nel com¬ 
mento dantesco del bergamasco Alberico da Kosciate, composto 


(1) I documenti d'umore di Francesco da Barberino secondo i manoscritti 
originali a cura di F. Egidi, Roma, 1903, voi. I, p. 101. I Documenti fu¬ 
rono composti nel tempo stesso di quella recitazione bolognese; pensati tra 
il 1297 e il 1300, furono condotti a termine tra il 1308 e il 1309 e copiati 
prima del 1318 nell’autografo barberiniano. — Nell’inventario del 1407 della 
biblioteca dei Gonzaga due mss. hanno il titolo: « Guilielmus de Orenga ». 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



10 


K. LEVI 


tra il t343 e il 1349 (1). Nel proemio al primo canto dell'/n- 
fcrno egli vuol spiegare r origine e la natura del nome Com¬ 
media « que ab antiquo tracta fuit a rusticis ex sonitu fistu- 
larum ». E prosegue: 

Unde postea apparuerunt comedi idest socij, qui pariter recitabant comedias, 
idest magnalia que occurebant, unus cantando alter succinendo et respondendo. 
Et isti comedi adhuc sunt in usu nostro et apparent maxime in partibus 
Lombardie aliqui cantatores qui magnorum dominorum in rìthmis cantarit 
gesta, unus proponendo, alius respondendo (2). 

Questa consuetudine del cantare alterno spiegherebbe assai 
bene la presenza contemporanea di due canterini, Andrea da 
Firenze e Zoparino, tra le panche di porta Ravignana a Bologna. 
« Specialmente nei territori della Lombardia » dice Alberico; e 
infatti i più frequenti accenni alla recitazione dei cantastorie si 
trovano in carte venete, emiliane e lombarde. Un frammento 
d’un carme latino, composto alla fine del secolo XIII da un tri- 
vigiano, ci descrive la folla che circonda in una piazza un can¬ 
tore, il quale, salito su una panca, « francorum dedita lingue 
« Carmina barbarico passim deformat hiatu ». Canta di Carlo- 
magno e delle gesta francesi ; « pendet plebccula circura auribus 
arrectis » (3). Ed a proposito del vecchio teatro di Milano il cro¬ 
nista milanese Galvano Fiamma dice che un tempo vi si rappre¬ 
sentavano scene istrionesche « sicut nunc in foro cantatur de 
Rolando et Oliverio » (4). 

Un’altra piazza in cui si cantò in panca fu quella di S. Michele 


(1) Così L. Rocca, Ballettino <1. Società dantesca dal. N. S. , III, p. 53. 

(2) Cfr. A. Fiammazzo, Il commento dantesco di Alberico da Rosciate col 
proemio e fine di quello del Bambaglioli, notizia del cod. Gruinelli raffron¬ 
tato col Laur: PI. XXVI sin. 2, Bergamo, 1895, p. 11. — Richiamò la mia 
attenzione su questa bella testimonianza il prof. Vittorio Rossi. 

(3) Cfr. F. Notati, Attraverso il Medio Km, Bari, 1905, p. 298. 

(4) Il passo, reso popolare dal Muratori, Antiq. Ital. M. Aevi, II, 844, 
fu illustrato da P. Rajna, Il teatro di Milano e i canti intorno ad Orlando 
e Ulivieri, nell’Arc/t. star, lombardo, XIV' (1887), p. 5 e seg. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


11 


in mercato, a Lucca. Era uno dei più bizzarri angoli dell’Italia 
medievale ; vi soleano dimorare « ribaldi, iocatori, corrieri » e 
« sempre e d’ogni tempo se ne vedea ». Durante la signoria di 
Castruccio Interminelli (1315-1328) frate Stoppa, composta la sua 
« morale » sulle mutazioni di fortuna, « quella disse cantando 
in sulla piazza di Santo Michele in mercato, dove vi fu a udirla 
gran parte di Luca» (1). 

Tra i cantastorie lucchesi divenne celebre alla fine del Tre¬ 
cento un fiorentino, Andrea di Goro dall’Ancisa, rifugiatosi a 
Lucca dopo il tumulto dei Ciompi (1383). « Il suo mestiere prin- 
« cipale era di cantare in piazza le prodezze dei paladini di 
« Francia e quindi la qualità di cantore o cantatore gli viene 
« attribuita quasi sempre nelle storie e talvolta nei documenti. 
« Al cantare congiungeva però altre industrie egualmente piaz¬ 
ze zaiuole ed ignobili, come d’intrigarsi in appalti di dazi plebei, 
« prestare servigi di guardia o, come oggi si direbbe, di polizia, 
« star mallevadore in cause criminali, e fino a dare la testimo¬ 
ne nianza fiscale delle esecuzioni di morte ». Nei tumulti tra le due 
fazioni dei vecchi cittadini e quella dei Guinigi, maestro Andrea 
fu pei Guinigi e dei più violenti, maneschi e riottosi; il 12 maggio 
del 1392 capeggiò la folla all’assalto del palazzo pubblico, dove 
fu trucidato e gettato dalla finestra il gonfaloniere Forteguerra 
de’ Forteguerri. Per queste belle imprese, dopo il trionfo dei 
Guinigi, ebbe in premio una provvigione annua, che fu poi accre¬ 
sciuta a dodici fiorini per altre insigni benemerenze di quella 
fatta. Morì prima del novembre del 1413 (2). Quando Paolo Gui¬ 
nigi aveva da trattare con Firenze, dice il cronista Giovanni 
Morelli (3), « non ci mandava mai per ambasciadore, se non il 


(1) Giovanni Sercambi, Cronache, voi. Ili, pp. 274-324. 

(2) S. Bonoi, Le « Cronache » di Giov. Sercambi lucchese, pubbl. sui inss. 
originali, Lucca, 1892, voi. I, pp. 452 e segg. 

(3) Il passo di Giov. Morelli ( Cronaca, Firenze, 1718, p. 223) fu messo 
in evidenza da A. D’Ancona, I canterini dell'antico comune di Perugia, nelle 
Varietà storiche e letterarie, 1* Serie, Milano, 1883, p. 71. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



12 


E. LETI 


« maestro Andrea, che cantava de’ Paladini e era nostro con- 
« cittadino e avea bando di qua; e ciò facea per dilizione ». Non 
so in quale rapporto fosse questo maestro Andrea da Firenze 
della line del Trecento con quell'altro maestro Andrea che ab¬ 
biamo sorpreso a cantare a porta Ravignana di Bologna nel 1307. 
I)a Lucca venne più tardi a Perugia un celebre eantampanca, 
maestro Angelo (1478), del quale erano sopratutto apprezzate le 
storie d’argomento romano e il « cantare de iinproviso canti- 
« lenas romanorum antiquorum vel alias notabiles » (1483). 

Anche a Siena la giulleria lasciò un solco profondo nelle 
memorie letterarie. È ormai nota a tutti la provvisione del co¬ 
mune Senese perchè si pagassero cento soldi di danari a Gui- 
daloste, giullare pistoiese, che aveva composto « quandam bal¬ 
latala de Torniella » cioè una ballata sulla presa del Castello 
di Torniella nel 1255 (1). Questo Guidaloste da Pistoia era un 
povero giullare, che qualche anno più tardi troviamo al servizio 
del conte [Guido di Adinolfo?] da Romena. 11 conte una volta 
invitò Guittone d’Arezzo a tenzone con Guidaloste ; ma l’aretino 
non volle raccogliere la sfida flett. XI]. Contro Guidaloste è di¬ 
retto un altro componimento di Guittone, il sonetto O Guida¬ 
loste, assai se’ lungiamente , nel quale si ha qualche partico- 


(1) Il doc. fu indicato nel Manuale di A. D’Ancona-O. Bacci ,0 , I, 34 e da 
A. D’Ancona, 7 ai jtoesia jwpol. ita 7.*, Livorno, 1906, p. 6. Eccone il testo 
preciso, che mi fu gentilmente trascritto dal cav. F. Donati, direttore della 
Biblioteca comunale di Siena: « Item C solidos denariorum Guidaloste jocu- 
< latori de ('istorio prò uno pario pannorum ex forma Consili Campane, qui 
« fecit cantionem de captione Tornelle » (Arch. di Stato di Siena, Biccherna, 
voi. XXIII, c. 23 a). Le deliberazioni del Consiglio di Campana sulla presa 
di Torniella sono state pubblicate da L. Zdekaier, Im vita pubblica dei Se¬ 
nesi nel Dufjento, Siena, 1897, p. 112 e segg. Intorno alla lettera XI di 
Guittone e al sonetto contro Guidaloste cfr. G. Zaccaunini, I rimatori pi¬ 
stoiesi del sec. XIII e XIV (Biblioteca di autori pistoiesi, voi. II), Pistoia. 
1907, p. xxxm e sgg. Non mi pare probabile fidentifìcazione di quel Guida¬ 
loste giullare con un ser Guidaloste di Bonaguida notaio (+ 1289), proposta 
da G. Za oc agnini, Studi e ricerche di antica storia letterarui pistoiese, Pi¬ 
stoia, 1910, p. 35 e sg. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI 


13 


lare non privo d'interesse intorno ai pubblici « vanti » consueti 
a quei cantastorie: 

9 E tu vai predicando ’n ogni canto 
a’ fanciulli, a' villani ed a catono 
che giostre molte ài vinte e prò’ se’ manto. 

Ciascun biasmi e reo teni, te bono: 

13 onde te pregian matti e credon tanto. 

9 

Un altro vero e proprio cantastorie senese era quel Ruggieri, 
che, secondo quanto egli stesso ci narra in un bizzarro compo¬ 
nimento, la Passione , nella seconda metà del sec. XIII (1262 ?) 
fu tratto davanti al tribunale dell’inquisizione (1). Che egli fosse 
un cantastorie, ci vien proclamato apertamente dal vescovo che 
presiede quel giudizio che è burlescamente riferito nella Pas¬ 
sione : 

62 Tu se’ facto un grande predikatofe 
novelliero e dicitore... 

L’accusa più grave ù quella di aver mangiato con dei pate¬ 
rini; al che Ruggieri ingenuamente risponde: 

Omo di mia arte non si puoe ischusare 
ki lo ’nvita, ke non vada a mangiare. 

« Era proprio dei giullari, annota il Torraca (2), non solo ac- 
« cettare ogni invito, ma spesso e volentieri invitarsi a conviti 
« e a feste, da sè. Questa interpretazione è confermata dalle 
«parole che il rimatore mette in bocca a uno de’ suoi nemici: 

Non è questi Rugieri 
k’io audii e vidi l’altrieri 
cantare inansi kavalieri...? » 


(1) « La Passione di Rugieri » in Rime antiche senesi, trovate da E. Mol- 
teni e illustrate da V. de Bartholomaeis, Roma, 1902, p. 13-17. 

(2) F. Torraca, Per la storia letteraria del sec. XIII (IX, Ruggieri Apu¬ 
gliesi), Napoli, 1905, p. 15 e sgg. . 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



14 


E. LETI 


A questo giullare senese si vuole attribuire anche la canzone 
« Umile sono ed argolglioso » che nel codice (1) reca in fronte 
il nome di « Rugieri Apugliese » e finisce: 

43 Ugieri apulgliesi conti, Dio convive a fortti ponti 
cavalieri, marchesi e conti lo dicono in ogne parti; 
ché mali e beni a llui sono giunti. 

E a lui un codice fiorentino del Quattrocento assegna un altro 
componimento di spiccato carattere giullaresco, le Arti , che è 
una redazione toscana del Serrentese del maestro di tutte 
farti, meridionale (2). Se si aggiungono a questi tre compo¬ 
nimenti un contrasto tra Ruggieri e un Provenzano (3), che 
secondo ogni verosimiglianza è il dantesco Provenzan Saivani, 
e una cantilena morale firmata (4): 

Io fui Ruggieri Apugliese dottore 

che mai mi fidai del mondo ingannatore. 

si ha un bel mazzetto di rime, dal quale si potrebbe con qualche 
industria far balzare la figura compiuta e vivace di un antichis¬ 
simo cantastorie. 

Simile alla provvigione del 1255 per la ballata di Torniella 
è un altro mandato di pagamento che si ritrova nei documenti 
senesi del 1321. In esso si ordina di pagare il dono di una tunica 
a un cantastorie che aveva composto e cantato una canzone in 

onoro degli scolari trasmigrati a Siena dallo Studio di Bologna. 

« 

Al periodo aureo del cantare in banca appartiene un altro 
senese, Pietro di Viviano da Strove, chiamato comunemente Pier 


(1) E. Monaci, Crestoni, ital . dei primi secoli, II. 209. 

(2) Le Arti di Ruggeri Apugliese per cura di S. Morpcrgo, Firenze, 1894 
(Nozze Gigliotti-Michelagnoli). Sulla questione cfr. V. Cian, Pel serventese 
del Maestro di tutte farti, in questo Giornale, 89, 454 . 

(8) V. De Bartholomaeis, Rime antiche senesi cit., n. Ili, pp. 22-29. 

(4) Fu pubblicata, da un cod. senese del Quattrocento, da P. Papa, La leg¬ 
gerla di S. Caterina di Alessandria in decima rima, nella Misceli, nuziale 
Rossi-Teiss, Bergamo, 1897, pp. 478 e segg. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


15 


Canterino. Egli nacque nel 1343 (1); nel 1398 era agli stipendi 
del Comune senese e nel 1410 dava l’ultima mano a un suo ter¬ 
nario, il Papalisto. Lasciò, oltre qualche minore componimento, 
tre cantóri sulle esequie rese a Giangaleazzo Visconti, e otto 
cantari leggendari, tratti da un poemetto francese, La bella 
Camilla. 

Che anche a Pisa si cantasse in banca, su per le piazze, si 
può arguire dal fatto che non pochi manoscritti di materia leg¬ 
gendaria sono di provenienza pisana ; e d’un cantare, la Donna 
del Vergiti , non si conosce nessun altro testo all’infuori di due 
codici pisani del Quattrocento. Tutto un libro di « dilettevole 
storie e cantari in versi composti da più persone valentissimi » 
mise insieme proprio a Pisa nel 1481 un certo Fruosino da Ve- 
razzano « sendo castellano del Palazzotto di Pisa, per piacere» (2). 
Un cantastorie pisano del principio del Quattrocento era quel 
Pucino d’Antonio, al quale si deve il vivace e forte lamento di 
Pisa (1406) e la Risposta che fa l'imperatore. Di qualche 
decennio più tardo è Michelagnolo di Cristofano da Volterra 
(n. 1464), die nel 1487, essendo trombetto del capitano di Pisa, 
compose la Storia del conte Ugo d’Alvemia , e poi il cantare 
in ottava rima delle Mirabili et inaldite belleze e adotta¬ 
menti del Camposanto di Pisa (3). Anche Perugia ebbe, at¬ 
traverso tutto il Quattrocento (4), una serie ininterrotta di can¬ 


ti) La data della nascita si desume da quel che dice Pier Canterino stesso 
nel Papalisto : egli lo finì nel 1410, in età di 67 anni. Le notizie della vita 
e il docum. senese del 1398 son tratte da F. Novati, Attraverso il Medioevo, 
rit., pp. 331-348. 

(2) Cod. Riccard. 2733 ; cfr. il Fiore di leggende, p. 353. 

(3) Edito di su una stampa della bibl. parigina dell’Arsenale da I. B. Su¬ 
pino, Il camposanto di Pisa, Firenze, 1896, p. 300 e segg. 

(4) I docum. perugini furono pubblicati da Adamo Rossi, Memorie di mu¬ 
sica civile in Perugia, nel Giornale di erudizione artistica, voi. Ili ed ana¬ 
lizzati da A. D’Ancona, Musica e poesia nell’antico comune di Perugia, 
nella Nuova Antologia, voi. XXIV, 1875, p. 55 e segg. Questo articolo fu poi 
ripubblicato col titolo: I canterini dell'antico comune di Perugia nel voi. 
Varietà storiche e letter., l a Serie, Milano, 1883, pp. 39-73. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



16 


E. LEVI 


tastorie. Fino dal 1385 era uso costante del Comune perugii ■ 
di chiamare al suo servizio dei canterini, che dovevano ralle¬ 
grare i pranzi dei priori e le pubbliche feste con suoni di chi¬ 
tarre e col canto di poesie : verbi #, soni# et canti#. Più tardi, 
nel 1431, si concedette a quel canterino di uscire in piazza, 
finita la cena dei Priori, e di cantare all'aperto «coram populo». 
Il cantore soleva raccogliere all' intorno l’offerta di pochi soldi 
dagli spettatori; ma nel 1461 gli si vieta di far la questua. E 
allora egli domanda ed ottiene che le panche siano provvedute 
dal Comune e che dal Comune sia pagato l'inserviente che do¬ 
veva porle e levarle e di « canore diebus festivis, in estate in 
« plateola sante Marie de mercato et in ionie in palatio pote- 
« statis ». L'entusiasmo suscitato da questi cantari in panca fu 
cosi grande, che le recitazioni dovettero essere fissate periodi¬ 
camente, mese per mese, come uno degli atti più belli della 
vita pubblica della città e più necessari al ritmo sano e misu¬ 
rato di essa. 

11 fervore del popolo è ormai tale che la Chiesa incomincia ad 
impensierirsene e getta degli sguardi obliqui e corrucciati sopra 
quella gioconda ebrezza della libera fantasia e del sentimento. 
Gli statuti di Tolentino (1), ad esempio, vietano ai cantastorie, 
precisamente come le Provvisioni degli Anziani di Bologna, di 
soffermarsi accanto alle chiese a cantare. 

Ed eccoci giunti, dopo questa scorreria attraverso l'Italia gaia 
e serena del buon tempo antico, all'estremo della penisola. Siamo 
a Napoli, nelLanno 1471. Sulla piazza che s'apre davanti al¬ 
l'Accademia « irrompe con allegro frastuono una turba di sea- 

« miciati dietro un altro poeta, il cantastorie. Sdegnosi di si 

* 

« volgare mascherata i due eruditi (il Fontano ed Enrico Po- 
« derigo), anzi tutti gli interlocutori del dialogo, si allontanano, 
« mentre il cantore popolare.... costruisce il suo palco, prepara 
« i sedili, ottiene il silenzio. Costui non è solo: inferiori a lui 


(1) Coinunic. del prof. Lodovico Zdekauer. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



Tav. II. 


Giornale storico ri. letter. ito!. 


Supplein. X. 16. 




Il Ctintuinpuiicu 

(ila due stampe popolari della Marciana). 




Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 












Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


17 


« nel grado e soci, direm cosi, nell'azienda, vengono un buffone, 
« che funge da Prologo, ed un trombetta od araldo. Al popolo 
« seduto parla prima il buffone, raccomandando 1’ attenzione e 
«promettendo in compenso un bicchier di vino; quindi espone 
« l'argoinento della storia di quella giornata. Sale allora in panca 
« il poeta e per un' ora racconta imprese guerresche, urto di 
« eserciti, battaglie e sfide. Succede un intervallo di riposo, col- 
« mato dalla voce lepida del buffone ; poi il primo ripiglia, finché 
« la narrazione viene dal tempo, non dal tema, troncata, per es- 
« sere ripresa il giorno dopo » (1). Cosi racconta il Fontano in 
uno dei suoi dialoghi più vivaci e più belli, VAntonius (1488). 
Quella scena scomposta, bizzarra e plebea irrita il Pontano, che 
esclama: « Et hoc quoque recens Cisalpina e Gallia allatum est! 
« Deerat unum hoc civitatis nostrae moribus tam concinnis ! ». 
Il cantaro in panca era dunque una novità d’importazione 
forestiera nel Mezzogiorno, venuta dalla «Gallia cisalpina», 
nella quale forse -il Pontano intendeva di comprendere anche 
Firenze. 

Infatti Firenze è per tutto il Quattrocento «la cava dei can¬ 
terini »; a Firenze nel 1477 il comune di Perugia mandava a sce¬ 
gliere il nuovo canterino, poiché ivi « sunt, dice il documento, 
« multi et ydonei liomines et ad dictum exercitium intelli- 
« gentes ». E nel 1478 da Perugia partiva addirittura alla volta 
di Firenze uno speciale corriere « prò inveniendo et conducendo 
« unum canterenum ydoneum et doctum » (2). 

La bella tradizione fiorentina risale a tempi assai antichi ; dei 
fasti dei cantastorie, dei giullari e degli uomini di corte fioren¬ 
tini, Ciacco, Biondello, Agnolo Doglioso, Gian Sega, il Gonnella, 
Passera della Gherminella, Dolcibene, il Capodoca, sono piene 


(1) Sono parole di B. Soldati, Improvvisatori, canterini e buffoni in un 
dialogo del Pontano, nella Misceli, di studi critici pubbl. in ornare di Guido 
Mazzoni, I, pp. 321-342. 

(2) A. D’Ancona, Varietà storiche cit., p. 63. 

i 

Giornale storico — Sappi. n° IO. 2 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



18 


E. LETI 


le novelle antiche, le novelle del Boccaccio e del Sacchetti (1). 
Le sparse memorie di altri cantori popolari fiorentini, quali 
Zaffarino e Niccolò Povero, io stesso ho cercato di raccogliere 
e di illustrare in una serie di lavori tutti diretti a convergere 
la luce sulla poesia spontanea e primitiva del popolo italiano 
alla vigilia del Rinascimento (2). È pure noto per le ricerche del 
Novati (3) che nel palazzo del Comune non mancò mai nel Tre¬ 
cento il referendario , cioè il canterino che doveva rallegrare 
le cene e le veglie dei Priori : a tale ufficio fu eletto nel 1352 
Iacopo Salimbeni, nel 1375 Geronimo detto Puccio del popolo 
di S. Apollinare, nel 1377 Giovanni di Giorgio, nel 1393 Antonio 
di Pietro di Friano, nel 1394 Checco di Gherardo del popolo di 
S. Lorenzo. Oltre a questi canterini regolarmente stipendiati si 
vedevano spesso, su e giù per le scale del palazzo dei Priori, 
dei liberi cantastorie, che venivano ad offrire i loro servigi o 
a reclamarne premio e mercede; ed erano Benuccio barbiere, il 
Ricca, Sergio da Pola ed altri ancora (4). Nè i privati cittadini 
volevano essere da meno dei signori di palagio; i giovanotti, 
dice un sonetto del Trecento (5), 

prendano soggiorno 
con son&tor dintorno 
e cantatori e dicitori in rima. 


(1) Cfr. F. Colagrosso, Oli uomini di corte nella Die. Comm., in Studi di 
letter. ital., II, p. 24 e sgg.; G. Bonifacio, Giullari e uomini di corte nel '200, 
Napoli, 1907. 

(2) Ezio Levi, Zaffarino e le sue nozze con madonna Povertà, 1908 
(Bullett. critico di cose francescane, III, 1-18); Le paneruzzole di Niccolò 
Povero, 1908 (Studi medievali, III. 81-108). Su Dolcibene il mio Vannozzo, 
p. 109; sulla poesia popolare nel Trecento il Vannozzo, p. 355 e sgg.; La 
ballata « Poi che zonta se' al partido » in questo Giornale, 58, 272 ; Can¬ 
tilene e baruffe chioggiotte nel Trecento, pure nel Giornale, 61, 345 . 

(3) F. Novati, Le jtoesie sulla natura delle frutta e i canterini di Firenze, 
nel voi. Attraverso il Medio Evo cit., p. 327 e segg. 

(4) Cfr. F. Novati, Op. cit., p. 342 e segg. 

(5) Cod. Magliai). VII. 1066, c. 18 b. Ricorderò ancora che un « maestro 
Luigi cantatore » fu posto allo specchio nel 1385 (Arch. di Stato di Firenze, 
Tratte, voi. 1137, c. 74, S. M. Novella, Drago verde). 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTASI L1GGBNDABI ITALIANI 


19 


Ben presto il centro della giulleria fiorentina divenne la piaz¬ 
zetta di S. Martino, sicché ad indicare la professione di dicitore 
è frequente nei documenti la frase : « che canta in San Martino » 
o « cantatore in San Martino ». Non credo che il Pucci, che aveva 
un ufficio regolare nel Comune, mai vi cantasse in persona; certo 
però vi furono recitati dai cantampanca i suoi cantari leggen¬ 
dari. Sulla panca di S. Martino si presentò invece Andrea di Tieri 
da Barberino, come egli stesso denunziò nella portata al catasto 
del 1427 (1). Il più celebre di quegli uomini di San Martino, 
« colui che ha passato ognuno in queH’arte », come lo proclamò 
il cronista Luca Landucci, fu per molto tempo Antonio di Guido 
(1437 c.-1486), così da suscitare le ire e l’invidia di un altro 
cantore, Antonio di Cola Bonciani (f 1439). In S. Martino cantò 
maestro Antonio da Bacchereto, che barbieri fu e ora canta 
in panca, avverte un copista. In S. Martino accese entusiasmi 
ed assensi il prodigioso cieco di Arezzo, maestro Niccolò, da¬ 
vanti al quale chinava la fronte anche Giovanni Pontano. Il 
cieco abitava nella casa di Michele del Giogante ; nel dicembre 
del 1435 al suo ospite egli volle rivelare il segreto della sua 

memoria tenacissima, gli artifici con i quali il suo pensiero si 

+ 

ingegnava di supplire all’aiuto dei poveri occhi spenti (2). Oh, 
il fremito di pietà che doveva tremare in quella voce sonora, 
quand’essa rievocava le grandi immagini pittoresche dei pala¬ 
dini e degli eroi, le quali avevano per tutti, ma non per il loro 
creatore, luce, linea e colori! 


(1) F. Flamini, La Urica toscana del rinascimento anteriore ai tempi del 
Magnifico, Pisa, 1891, p. 158. 

(2) Cfr. F. Flamini, Op. cit., p. 188; 0. Bacci, Un trattatello di Michele 
del Giogante, in questo Giornale, 32, 327, poi nel volume Prosa e prosa¬ 
tori, Palermo, 1907. 


% 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



20 


■ . LIVI 


III. 

I cantari. 

Una parte del fascino di quella poesia è ormai spenta per 
sempre : ci rimane la parola, ma è perduta la musica che le era 
compagna. Che i cantóri si cantassero coiraccompagnamento di 
istrumenti musicali, lo dicono i numerosi documenti fiorentini 
e perugini che ricordano pifferi, ceramelle, chitarre, viole, e lo 
dice quel celebre passo dello Specchio della vera penitenza 
del Passavanti che descrive i canterini in atto di fare « i gran 
colpi pure con l’archetto della viola » per coprire il brusio della 
folla turbolenta e agitata (I). Un cantastorie col violino sulla 
spalla e l’archetto in pugno è raffigurato sul capitello d’una 
delle colonne del porticato esterno del Palazzo Ducale a Ve¬ 
nezia (2). Appunto per l’irrequietezza di quel pubblico indisci¬ 
plinato il cantare non poteva essere troppo lungo; di rado su¬ 
perava le cinquanta ottave. Il Passavanti avverte che « non è si 
bella canzone, quand'ella è troppo lunga, che non rincresca»; 
e l’Altissimo confessa, interrompendo bruscamente il canto XIX 
del primo libro dei Reali : 

per oggi più non canto in San Martino, 
perchè lunghi cantar son sempre brutti. 

Per questa ragione nel Fiore di leggende ho spezzato in pa¬ 
recchi cantari quei poemetti che nei codici e nelle stampe se- 


(1) I. Passavanti, ho specchio delta vera penitenza, Firenze, 1863, p. 283; 
cfr. A. Montevkrdi, Gli esempi dello « Specchio di vera penitenza »,in questo 
Giornale, 61, 267. 

(2) È riprodotto da P. Molmenti, Storia di Venezia nella vita privata 4 , 
Bergamo, 1905, p. 413. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI 


21 


guivano senza interruzione dal principio alla line, come, p. es., 
i Tre giovani disperati e il Gibello. 

I cantari non erano destinati alla lettura e alla meditazione ; 
ma si recitavano a memoria con la rapidità di cosa improvvi¬ 
sata. Questo fatto spiega gli scorci delle figure, le ingenue pit¬ 
ture d’ambiente, i trapassi degli argomenti, perchè diversa è la 
prospettiva dei libri destinati agli occhi da quella delle opere 
fatte per l’udito. I cantari serbano tracce evidenti della reci¬ 
tazione sulle panche nelle formule con le quali essi si aprono 
e chiudono, formule convenzionali e tradizionali come sono ancor 
oggi tanti altri elementi del teatro. Se la lirica, che è arte indivi¬ 
duale, ha per fondamento la verità dell’espressione, ogni forma 
di arte sociale ha invece a fondamento una convenzione, un rap¬ 
porto di luci ad ombre, di linea a linea, di colore a colore. 

Ogni cantare ha al principio e alla fine un’ottava nella quale 
è racchiusa l’invocazione a Dio e ai Santi. Naturalmente queste 
invocazioni potevano mutare, mutando le circostanze e la per¬ 
sona del cantastorie, sicché è frequente il caso di cantari con 
duplice o triplice inizio, oppure di cantari senza inizio e senza 
fine (1). Il fatto che l’ottava iniziale era una formula conven¬ 
zionale, senza connessione col resto, ci spiega perchè i due can¬ 
tari di Bruto e di Gismirante abbiano la prima ottava identica. 

II canterino raramente inventava l’argomento del cantare o 

componeva a capriccio sopra la trama di lontane letture; il più 

delle volte aveva sott’ occhio un libro latino o francese e da 

* 

quello traeva direttamente la materia della sua poesia. E assai 
difficile precisare dove finisse la composizione originale e dove 
invece incominciasse la traduzione. Il rispetto per il pensiero 
altrui è uno scrupolo moderno ; forse perchè era più forte e più 
schietta della nostra, la fantasia degli antichi non tollerava legge 
e tendeva al successo mediante ogni più indisciplinato capriccio. 


(1) Il cantare dei Tre giovani ha nelle stampe due diverse ottave iniziali; 
Bruto manca dell'ottava finale. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



22 


Z. LEVI 


Nel Gismirante (II, 2) il Pucci ci rivela ingenuamente come 
dai libri egli venisse traendo i cantari : 

per darvi diletto chiaramente 
di novità, cercando vo le carte 
e quel che piace a me, vi manifesto. 

Questa maniera di comporre spiega la fecondità dei canterini 
e ci obbliga, per ben intendere il testo, a ricercarne la fonte. 
Il caso della « storia del cavaliere brettone » di Andrea Cap¬ 
pellano, tradotta alla lettera nel Bì'nto, è caratteristico. Ma la 
ricerca delle fonti è assai difficile, perchè la leggenda medievale 
è sconfinata e le indicazioni fornite dai cantastorie sono ben po¬ 
vera cosa. Il Pucci dice di aver tratta la Regina (l’Oriente da 
un libro che gli pare « degli altri il fiore » (I, II, 2); il Gismi¬ 
rante « da una storia novella » ; il cantastorie del Gibello di¬ 
chiara di trarre le sue informazioni da « un libro » (LXI, 8), 
senz’altro. Dietro i cantari si spalanca in tutta la sua immensità 
l’intera letteratura del Medioevo. 

Sebbene i cantari appartengano a regioni e a tempi assai dif¬ 
ferenti, essi formano una compagine cosi omogenea che è im¬ 
possibile giudicare e studiare l’uno senza conoscere tutti gli 
altri. Il primo cantare del Fiore di leggende, il Bel Gherardino, 
è anteriore al 1354, l’ultimo, il Cerbino , è dei primi anni del 
Cinquecento; quattro sono di Antonio Pucci, altri sono di canta¬ 
storie settentrionali o almeno non toscani. Eppure, leggendo, essi 
ci appaiono tutti composti dalla medesima mano, nello stesso 
tempo; manca il carattere del secolo, manca l'impronta di ogni 
spiccata originalità poetica. Ciò significa che l’arte vi è assente? 
No ; come ogni forma d’ arte primitiva, al pari della pittura e 
dell’architettura sacra, anche la poesia dei cantari è « imperso¬ 
nale » cioè fa scomparire i tratti individuali dentro gli schemi 
imposti dalla tradizione. Illusi da questa apparenza esteriore, i 
critici di qualche decennio fa attribuivano in fascio tutti i can¬ 
tari ad Antonio Pucci. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
=—~ URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI 


23 


Sono simili in tutti i cantari lo svolgimento dell’azione, lo scio¬ 
glimento del nodo dei fatti; simili i colpi di spada, gli amori, 
le avventure. Ed è tale la parentela che lega insieme tutti i 
cantari, che abbondano i versi comuni a parecchi di essi. Per 
esempio il verso: 

infìno a mezzogiorno ha cavalcato 

appartiene al Gibello (I, XXVI, 2), e a Pulzella Gaia (LXII, 2). 
Il verso: 

E quando venne sé l’alba del giorno 

è comune a tre cantari: la Regina (l'Oriente (III, XXXVI, t), 
Bel Gherardino (I, X, 7) e Liombruno (I, XXVI, t). Il verso: 

chi si vantava di bella mogliere 

è tal quale in Liombruno (I, XLI, 1) e in Madonna Piena 
(X, 1). 

Questi tratti comuni del resto erano necessari per aiutare la 
memoria durante il canto sulla panca. 


IV. 

Il " Fiore di leggende 

I cantari avevano soggetti disparatissimi: erano religiosi, leg¬ 
gendari, cavallereschi, epici, novellistici. Il Cantare dei cantari 
(1380-1420), che è come l’indice del repertorio dei cantastorie, 
raccoglie nelle sue ottave tutta la leggenda del Medioevo. Stu¬ 
diando i cantari del popolo italiano, credo opportuno di inco¬ 
minciare col distinguerli e disciplinarli in alcune grandi classi: 

1° i cantàri ciclici, cioè quelli che si riferiscono a per¬ 
sonaggi carolingi o a personaggi del ciclo d’Artù. Alcuni di 
essi, sei in tutto, di schietta materia carolingia, furono recen- 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



24 


E. LEVI 


temente raccolti in volume (1); la maggior parte è ancora di¬ 
spersa nei codici e attende un editore coscienzioso ;2); 

2° i cantari di argomento classico: Orfeo, la «bellissima 
storia di Perseo quando ammazzò Medusa », la « Historia di Gia¬ 
sone e Medea », la « liistoria di Piramo e Tisbe », la « Historia 
e morte di Lucrezia romana », ecc. ; 

f 

3° i cantari di argomento religioso, come la « Historia di 
Giuditta », la « Historia di Susanna », la « Historia del Santo 
Volto », il cantare di madonna Elena imperadrice, la storia di 
S. Giovanni Boccadoro, la « leggenda delli sette dormienti », la 
« Storia della cintola della gloriosissima V. M. », la storia di 
S. Martino, di S. Caterina, di S. Verdiana, « di quelli santi mo¬ 
naci che andarono al paradiso deliciarum », ecc. (3); 

4° i cantari leggendari, quelli cioè che corrispondono ai 
lais brettoni di Maria di Francia, ai racconti di fate, ai poe¬ 
metti e ai poemi di Chrétien de Troyes e ai romanzi d'avventura ; 
insomma quelli che raccolgono la « leggenda minore » francese. 
In un libro, nel Fiore di leggende (4), ho cercato di ricomporre 


(1) G. Barisi, Cantari cavallereschi dei sec. XV e XVI ( Collez. di opere 
inedite o rare, pubblicate dalla R. Commissione pe’ testi di lingua), Bo¬ 
logna, 1905. 

(2) A quest’opera attende la sign.* Moreschi. Per ora ci si deve servire del 
voi.: G. Malavasi, Im materia luetica del ciclo brettone in Italia, e inpar¬ 
ticolare la leggenda di Tristano e quella di Lancillotto, Bologna, 1903. 

(3) Due cantari religiosi»composti nel 1449, intorno a S. Cristina e a S. Or¬ 
sola furono ed. da A. Cinquini, Leggende in rima di S. Cristina e S. Orsola, 
in Classici e neolatini, IV, 1. Altri cantari sui santi Alessio, Barbara, Cate¬ 
rina mart., Caterina peccatrice, Giuliano, Lucia, pubblicò di recente R. Man¬ 
ganelli, Cantari narrativi religiosi del popolo italiano, nuovamente raccolti 
e comparati, Roma, 1909, P. I. 

(4) Scrittori d'Italia, 1914. Il primo volume, l’unico finora pubblicato, 
comprende i 12 cantari, che sono appunto quelli dei quali discorro nei capi¬ 
toli V-XVI di questo libro. Il secondo voi. conterrà gli otto cantari della 
Bella Camilla, Fiorio e Biancofiore, VApollonio, il Falso scudo. Il presente 
saggio era destinato in origine a chiudere il primo volume del Fiore. — Di 
Maria di Francia ho sott’occhio questa ediz.: Die Lais der Marie dk France, 
herausg. von Karl Warnoke *, Halle, 1900. Per rendere più accessibile al 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


25 


le sparse fronde di quell’albero secolare e prodigioso. Durante 
quei lavori, per dare una linea architettonica al volume ebbi 
davanti agli occhi costantemente la visione del libro di Maria 
di Francia e cercai di raccostare la materia italiana a quella 
dei lais. E infatti i tre cantari del Bel Gherardino, della Pul¬ 
zella gaia e di Liombruno corrispondono al lai di Lanval , 
Gibello al lai di Fratine, ecc. Le leggende antiche, che hanno 
tanta grazia di candida ingenuità nel verso cadenzato e melan¬ 
conico di Maria, si improntano, in questi rudi cantari destinati 
alla plebe, di una robustezza più acre e virile, ricevono il sug¬ 
gello del carattere scettico e insofferente del nostro popolo, che 
forse tra un’ottava e l’altra meditava il tumulto dei Ciompi. Le 
leggende medievali perdono il loro vago profumo di sogno e di 
mistero (t) ed hanno qui linee nette, colori accesi e violenti, 
perchè l’occhio del popolo italiano, inondato di luce e di sole, 
rifugge dalle nebbie e dalle incertezze e dovunque, anche nel 
romanzo, vuol vedere chiaro, preciso e definito. Siamo al tra¬ 
monto della leggenda (2). 


pubblico italiano il testo, non sempre facile, dei lais ne ho compiuto una ver¬ 
sione in prosa, che vedrà tra breve la luce in un volume della collezione : 
Scrittori stranieri (Bari, Laterza). Nella scelta, nell’ordinamento e nell’in¬ 
terpretazione della materia dei volumi del Fiore di leggende tengo presente 
quell’aureo libro, cosi caro a Gaston Paris, che è lo Spielmannsbuch di Wil¬ 
helm Hertz. Mi servo della 4* ediz., Stuttgart, 1912. 

(1) Si noti che i lais di Maria di Francia, quasi fossero composti con spi¬ 
rito non latino, sebbene fosse romanza la loro parola, non ebbero nell’Europa 
meridionale quella straordinaria fortuna che li salutò invece nell’Europa ger¬ 
manizzata. Risale alla prima metà del Duecento la versione nordica, gli Stren- 
gleikar, eseguita per ordine di Re Haakon [1217-1263]; risalgono al Trecento 
e al Quattrocento le versioni inglesi dei lais di Lanval e di Fraisne. 

(2) L’attraente studio della sorte che ebbero tra noi le leggende medievali, 
delicate e sottili come trine, potrebbe dar luogo a notevoli indagini e ad im¬ 
portanti discussioni. Mi basti per ora ricordare la bella conferenza di A. Grap, 
Il tramonto delle leggende nel voi. La vita italiana nel Trecento 7 , Milano, 
1912, pp. 293-321. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



26 


E. LETI 


V. 

Il bel Gherardino. 

4 

Il bellissimo cantare del Bel Gherardino si legge in due ma¬ 
noscritti toscani del Trecento (1) e in uno di questi reca in 
fronte la data: « al nome diddio amejn], adi 15 di marso 1392 ». 
Ma questa data deve essere errata, perchè il manoscritto sembra 
più antico di qualche decennio e contiene in principio degli atti 
giudiziari del podestà di Dicomano dell’ anno 1342 e alla fine 
dei ricordi famigliari dell'anno 1372. La postilla scritta in fronte 
al Bel Gherardino è della stessa mano che vergò quei ricordi 
e la nota che vi si connette: « al nome di Dio adi XXVI d’aprile 
1372 », sicché è ragionevole il sospetto che anche la trascrizione 
del cantare sia avvenuta proprio in quella primavera del 1372 
e che in quella postilla debba leggersi « adi 15 di marzo 1372 » 
in luogo di « 1392 ». 

L’editore del Gherardino , lo Zambrini (2), suppone che il 


(1) A: cod. Magliai). Vili. 1272, c. 32 6, «e qui finisce questo legiere 
« d’Apolonio. Regraziato sia Idio ella sua madre vergine Maria. Amen. 
* Questo cantare d’Apolonio è finito allo vostro onore e 1 secondo è al co- 
< minciante dello Gherardino, e questo libro è di Davantino di Giovanni ». 
E nella c. 33 a: < al nome d’iddio, ame[nj; adì 15 di marzo 1392 ». Il can¬ 
tare finisce a c. 37: « Amen, amen, amen; finito è il chantare del bel G. ». 
— B : cod. II. IV. 163 della B. N. di Firenze, c. 94. Il testo rimane interrotto 
all’ott. I. 28. 

(2) F. Zambkim , Cantare del Bel Gherardino, novella cavalleresca in 
ottava rima del sec. XIV non mai fin qui stampata, Bologna, 1867. Intorno 
a questa sciagurata ediz. si cfr. G. Piccini, Lettera a F. Zambrini, nel gior¬ 
nale Ixt gioventù, rivista nazionale italiana di scienze, lettere, arti, Firenze, 
1867, N. S., voi. IV, p. 321. Al Piccini rispose, difendendosi, F. Zambkim, Sul 
Bel Gherardino, ttovella cavalleresca del sec. XIV, ecc. nel medesimo vo¬ 
lume della Gioventù, p. 431 e segg.; replicò il Piccini additando una serie 
di « scerpelloni » del cantare. Frutto di questa polemica è la seconda ediz. 
del Bel Gherardino, nel 1871 (falsa data: 1867) nella Scelta di curiosità 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


27 


cantare sia assai antico e sia stato composto « almeno verso 
« il 1335 o in quel torno, cioè a dire innanzi che il Boccaccio 
« componesse la sua Teseide ; per ver dire mostrasi in questo 
« nostro cantare che la stanza non fosse ridotta alla sua per- 
« fezione, come ritraesi dalle ottave 1, 11, 12, 14, che, senza 
« interruzione di senso e di costrutto, sono di sei endecasillabi 
« runa ». Il ragionamento è assurdo; quelle ottave non sono 
imperfette per l’infanzia della poesia, ma semplicemente perchè 
il codice è lacunoso. L’altro manoscritto, che sinora era sfuggito 
alle ricerche dei critici, colma tutte quelle lacune e ridà « per¬ 
fezione » alle ottave. 

Un dato cronologico ben più saldo e robusto ci viene dal Cor- 
baccio boccaccesco, nel quale il poeta discorrendo dei pettego¬ 
lezzi della sua malvagia vedova, esce a dire: 

E già assai volte, millantandosi, ha detto che, se un uomo stata fosse, 
l’arebbe dato il cuore d’avanzar di fortezza non che Marco Bello, ma il Bel 
Gherardino, che combattè con l’orsa. 

Queste parole, che evidentemente alludono alle ott. 15-17 del 
primo cantare del Gherardino, furono scritte tra il dicembre 
del 1354 e il febbraio del 1355 (1), ed attestano con sicurezza 
che già verso la metà del secolo i personaggi e gli avvenimenti 
del poema erano largamente conosciuti dal pubblico. 

Chi è l’autore del Gherardino ? Naturalmente i critici del 
vecchio stampo, che tutta la roba senza padrone assegnavano in 
fascio al Pucci, son concordi nel riconoscere anche nelle ottave 
del poemetto il « legname » del banditore fiorentino. Vediamo. 
Nel poema soltanto due volte il cantastorie interrompe il rac- 


letterarie inedite o rare, disp. LXXIX. Intorno a quel pasticcio bibliografico 
cfr. G. B. Passano, I novell. ital. in verso, Bologna, 1868, p. 154; F. Zam- 
brini, Le opei-e volg. a stampa dei secoli XIII e XIV*, Bologna, 1884, 
col. 212. Lo Zambrini non conobbe altro che il cod. A. 

(1) Cfr. H. Hauvkttk, Una confessione del Boccaccio: il Corbaccio, tradu¬ 
zione di G. Gigli, Firenze, 1905, p. 19. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



28 


B. LITI 


conto delle gesta di Gherardino per parlarci, sia pure di sfuggita, 
di sè stesso : all'inizio del primo e all'inizio del secondo cantare. 

[I. 2] Con ciò sia cosa che questo cantare 

sia dei primi ch'io mai mettessi in rima, 
però vo’ far perfetto incominciare 
e ritornare al buon detto di prima, 
siech’a costor, che mi stanno a ascoltare, 
piaccia e diletti dal piede alla cima. 

[II. 2] Signori e buona gente, voi sapete 

che in prima è l’uom discepol che maestro 
e le virtù, ch’agli nomini vedete, 
procedon dal Signor, Padre cilestro. 

Però, s'io fallo, non mi riprendete, 
che di tal arte non son ben maestro... 

Dunque il poeta era alle sue prime armi e domandava ap¬ 
punto per questo l’indulgenza degli ascoltatori. Del Pucci noi 
abbiamo sirventesi del 1333 « per il diluvio che fu a Firenze » 
e abbattè la statua di Marte al Ponte vecchio, del 1335 «per 
ricordo delle belle donne eh’erano in Firenze», del 1337 per 
l’acquisto di Padova. Se l’autore del Gherardino fosse real¬ 
mente il Pucci, poiché quei versi sono dei primi che il poeta 
« mai mettesse in rima », bisognerebbe collocarne la composi¬ 
zione intorno al 1330. Che si possa risalire a tempi cosi remoti 
lo creda chi vuole, non io; tanto più che la citazione del Cor- 
baccio pare riferirsi a un’opera recente, intorno alla quale fosse 
ancor desta la curiosità dei fiorentini, e non a un lontano can¬ 
tare, di cui già fosse ormai illanguidito il ricordo. 

Sebbene l’autore si dichiari da sè stesso « non ben maestro » 
nell’arte di poetare, il Bel Gherardino è una delle opere più 
fresche ed affascinanti del Trecento. Il racconto corre rapido e 
serrato, senza perdersi nelle solite lungaggini della poesia po¬ 
polaresca ; ed è, nella sua densità, vivo e drammatico. Appunto 
perchè diffidava delle sue forze poetiche, il cantastorie si è tenuto 
cosi stretto alla sua fonte, che rispetto ad essa le ottave del can- 


Digitized by 


Google 


Original % from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
_ - URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


29 


tare sembrano come un guanto ben calzante, entro il quale pre¬ 
mano le forme di una bella mano, delineandosi con meravigliosa 
evidenza. Alla sua fonte, che era certo un libro e non una tra¬ 
dizione orale (« come legger soglio », cant. I, ott. 3), l’autore ac¬ 
cenna più d’una volta: 

[I. 12] e un grande orso (ciò dicon le carte) 
assalì Marco Bel subitamente. 

[11.24] E, s’egli è vero quel che il cantar mostra, 
più e più volte d’amor feciono giostra. 

Ma sono citazioni cosi vaghe, che non si può trarne dedu¬ 
zione alcuna. 

La trama del racconto è questa. 

Bel Gherardino, figlio di messer Leone di Roma, è cosi libe¬ 
rale che in poco tempo dà fondo all’eredità paterna; e allora, 
insieme con uno scudiero, Marco Bello, pensa « di andare alla 
ventura ». Giunti presso un castello, devono combattere con un 
orso e con un serpe; e Gherardino li uccide. Entrano nel ca¬ 
stello e lo trovano deserto (1-20). Dopo cena, a Gherardino ap¬ 
pare la Fata Bianca; e subito il cavaliere e la fanciulla si in¬ 
namorano (20-34). Ma Gherardino è afflitto dalla nostalgia e vuol 
ritornare a Roma. La Fata gli regala un guanto incantato, per 
mezzo del quale egli potrà ottenere ogni cosa che desideri, e 
raccomandandogli di serbare il segreto del loro amore, lo ac¬ 
commiata. Figuriamoci la meraviglia dei romani di fronte al¬ 
l’infinito splendore della corte di Gherardino! (35-41). Gherar¬ 
dino non risponde alle indiscrete domande intorno all’ origine 
delle sue ricchezze; ma non sa opporre un rifiuto alla madre 
e le rivela il nome e l’amore della Fata Bianca (42-44). Subito 
ricchezze ed armi scompaiono per incanto. Marco e Gherardino 
si rimettono in via e cadono in un fiume, dal quale sono tratti 
da una fanciulla. Gherardino si rituffa nell’acqua por lavarsi e 
scompare. Marco e la fanciulla, che si sono innamorati l’un del¬ 
l’altro, non si dànno altro pensiero di lui (cant. II, 5-15). Ghe- 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



30 


E. LEVI 


rardino capita ad Alessandria ed è fatto prigioniero ; la sultana 
si innamora di lui. 11 Sultano annuncia che è bandito un torneo, 
nel quale il vincitore otterrà la mano d’una gran signora e vuol 
partire (II, 16-25). Quella signora è la Fata Bianca che, rite¬ 
nendo morto Gherardino, desidera di rimaritarsi. Gherardino 
chiede commiato e va a partecipare al torneo, dove atterra tutti 
i cavalieri, uccide il Sultano e riconquista la sposa (25-43). La 
Sultana si consola della perdita di Gherardino, ottenendo in 
cambio un altro donzello « di gran legnaggio ». 

Il motivo fondamentale del poemetto, l'amore di Gherardino 
per la Fata Bianca, la perdita di essa per l'indebita rivelazione 
del segreto e la riconquista attraverso mille avventure, è co¬ 
mune ad altri cantàri italiani, quelli di Pulzella Gaia e di 
Liombruno, ed ebbe nel Medio evo (nei sec. XII e XIII) la sua 
più perfetta espressione poetica nei lais di Lanval di Maria di 
Francia, e di Graelent (1) e nella meravigliosa saga di Parthe- 
nopeus de fìlois. Come Gherardino, anche Lanval è un cavaliere 
altrettanto liberale quanto povero; dolente del suo triste destino, 
egli un giorno esce dalla città e giunge sulle rive d’un ruscello 
dove trova due damigelle, le quali lo invitano a presentarsi alla 
loro signora. Lanval le segue e arriva al padiglione, sotto il quale 


(1) Die Lais der Marie de France, herausgegeben von K. Warnckf. *, Halle, 
1900, p. 86 e segg. [n. V]. — Intorno a Lanval, cfr. Li lais de Lanval, Altfr. 
Gedicht der Marie de France, nebst Th. Chestre's Launfal, neu herausge- 
geben von L. Erli.no, Kempten, 1883; A. Kolls, Zur Lanvalsage, eine Quel- 
lenuntersuchung, Berlin, 1886; W. H. Schofield, The Lag» of Graelent and 
Lanral and thè story of Wayland, in Publicatiom of thè Modera Lan- 
guaye Association of America, 1900, XV, 121-180. — Il lai di Graelent è 
citato anche da Goffredo di Strasburgo nel Tristano ; Tristano canta un lai 

von der vii etolzen friundin 
Qrdlnndrs dee schoenen ... 
in britùniecher t dee. 

Esso è edito dal Baruazan, Fahliaux et contee des poètes frangois des XI, 
XII, XIII, XIV et XV* siècles, nouvelle ódit. par Méo.n, Paris, Warée, 
1808, voi. IV, p. 57. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


31 


giace una fata meravigliosa. La fanciulla si innamora del cava¬ 
liere, ma, prima di concedersi, lo avvede che il suo amore ha 
una condizione, alla quale non si può venir meno: il segreto. 

147 A tuz joura m’&vriPz perdile, 
se ceste anioars esteit sede. 

Ma appena ritornato alla corte, Lanval si lascia sfuggire il se¬ 
greto. La regina s’era innamorata di lui; nel respingerne le im¬ 
pudiche profferte, egli le dice che ha donna della quale la più 
meschina servente vale meglio di lei. La regina accusa al re 
Artù l’imprudente cavaliere ed egli viene condannato a morte, 
se entro un termine stabilito non riveli il nome della sua inna- 
morata e non la presenti alla corte. L’ultimo giorno, mentre 
Lanval tra il compianto di tutti si accinge a morire, a un 
tratto appaiono nella città due damigelle meravigliose; la corte 
crede che una di esse sia l’amica di Lanval, ma egli scrolla il 
capo. Esse non sono che due serventi della Fata. Ed ecco ap¬ 
pare una terza fanciulla su un palafreno bianco. Lanval non 
può frenare la sua commozione; ella è la sua innamorata. 
Ella si fa largo e davanti a re Artù proclama: «Arturo, ascol¬ 
tami! Io ho amato un tuo vassallo. Eccolo. Egli è Lanval!», 
e balza in sella. Lanval l’attende al varco su una pietra che è 
sulla soglia del palazzo e quando ella passa al galoppo, le si 
lancia sull’arcione e l’abbraccia. Stretti in un abbraccio, sul me¬ 
desimo cavallo, la fata e il cavaliere galoppano via; e nessuno 
li vide più. 

L’argomento del lai di Oraeleni presenta qualche variante; 
l'amore della regina e la vendetta di lei, che sono alla fine 
in Lanval , sono collocati in Graelent al principio. Il cava¬ 
liere, sbandito dalla corte, va a vivere nei campi e nei boschi ; 
dopo molte altre avventure, inseguendo una biscia, un giorno 
arriva a un ruscello nel quale si bagnano tre fate. Due fuggono ; 
la terza rimane. Graelent, che è prode e leale, non la tocca, ed 
ella si innamora di lui. Vivono insieme un anno, amandosi di 
perfetto amore ; poi il cavaliere ritorna alla corte. Quivi, durante 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



32 


K. LIVI 


le feste di Pentecoste, il re, avvinazzato, fa porre la regina nuda 
su un palco, perchè tutti possano ammirarne le bellezze. Solo 
Graelent non partecipa al comune entusiasmo; e la regina, of¬ 
fesa dalla sua indifferenza, gliene domanda ragione. Il cavaliere 
commette l’imprudenza di rivelare eli’ egli ha un’ innamorata 
assai più bella; subito egli viene condannato a morte se egli 
non riveli chi ella sia. Le scene che seguono, sono pur sempre 
quello di Lanval ; ma qui la fata se ne fugge da sola e Graelent 
la insegue fino a un ruscello. Ella si getta nell'acqua e Graelent, 
per raggiungerla, nell’impeto e nella foga di quei momenti su¬ 
premi, sta per annegare. Ella lo salva, ma il cavaliere, dispe¬ 
rato per il suo errore, si getta di nuovo nell’ acqua. Allora le 
duo damigelle intercedono grazia per lui e la Fata, rappacifi¬ 
cata, lo conduce nel suo regno. Nessuno più vide Graelent; il 
cavallo di lui galoppa lungo le rive del ruscello, nitrendo di¬ 
speratamente quasi per richiamare il suo signore (1). Nel lai 
di Graelent abbiamo un particolare analogo al cantare di Ghe- 
rardino : la scena del fiume. Ma nella leggenda italiana il nesso 
dei fatti è cosi strano ed illogico, che si deve ammettere che 
la fonte del poemetto dovesse essere assai torbida e remota dal 
lai primitivo; non si sa perchè Gherardino cada nel fiume la 
prima volta (II, 5) e la seconda volta egli si rituffi nelle onde, 
non già per la disperazione del rimorso (come nel lai), ma 
semplicemente per un incredibile bisogno di lavarsi dopo il 
primo tuffo! 

Per moltissimi tratti si accosta al cantare italiano il bel¬ 
lissimo poemetto Pavthenopeus de Blois (2), che è un rima- 


(1) Questi due lai» sono a fondamento delle leggende di B. Gherardino, 
Pulzella gaia e di Liombruno. Sulle relazioni di questi tre cantari coi due 
lai8 cfr. R. Kohlkr, nella pref. ai Lais, ed. Warncke, p. cxv. 

(2) Parthenopeus de Blois, ed. Crapelet, Paris, 1834 ; cfr. Leorakd d’Acssv, 
Fabliaux et contes du XII• et du XIII• siècle, traduits ou extraits d’après 
divers mss. du teinps, voi. IV, p. 203 e sgg. ; J. B. B. de Roquefort, Notice 
d’un ms. de la Bibliothèque imperiale coté n. 1239, in Notices et extraits 
des mss. de la Bibliothèque Imperiale, voi. IX (A. 1813), pp. 3-84. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI SS 

neggiaraento, compiuto con molta arte, del vecchio motivo dei 
due lais. Al pari di Lanval, Parthenopeus inseguendo un cinghiale 
si perde in una foresta e poi giunge sulle rive del mare, dove 
trova ancorato un vascello abbandonato. Appena egli è salito a 
bordo, la nave parte e approda presso un castello. La descri¬ 
zione del castello fatato è nel Parthenopeus identica di quella 
del Bel Gher ordino (I, 19-23): le mense sono imbandite, ma 
deserte, deserta è la stanza dove arde un gran fuoco nel camino. 
Come per incantamento le vivande sono recate e tolte ; a un 
piatto ne segue un altro senza che mai si vegga chi li arrechi 
e li sostituisca. Finito il pranzo, Parthenopeus si alza e due fiac¬ 
cole, proprio come nel B. Gher., gli si pongono ai lati e lo ac- 

0 

compagnano nella stanza da letto. Appena egli ò coricato, una 
persona si spoglia e gli si colloca al fianco: è una dama, la quale 
subito rimprovera Parthenopeus per il suo ardimento. Dalla pa¬ 
rola il cavaliere indovina che ella deve essere bella e con umiltà 
le chiede scusa e le racconta Y avventura. La sconosciuta, an¬ 
cora irritata, lo minaccia di morte; e Parthenopeus, timido e 
desolato, non sa trattenere il pianto. Quel pianto commuovo 
la damigella e la induce al perdono; dopo pochi istanti ogni re¬ 
sistenza è vinta e i due giovani sono l’uno tra le braccia del¬ 
l’altro: flors i dona et flors i prist. La bella sconosciuta è 
Mèli or, che con arti magiche ha attirato al suo castello Parthe¬ 
nopeus, del quale s’era innamorata. Ma egli non può sposarla 
che tra due anni, quando sarà cavaliere, e perciò egli deve te¬ 
nersi celato quanto può e serbare gelosamente il segreto. Al 
pari di Gherardino, Parthenopeus passa le giornate cavalcando 
e cacciando; ma dopo un anno egli chiede congedo per ritor¬ 
nare in Francia e si imbarca. Giunge a Blois e vi ha moltis¬ 
sime avventure, che non trovano riscontro nel cantare e perciò 
ometto (1). A Blois Parthenopeus si accompagna con un valletto. 


(1) Il re di Francia era in guerra con Somegour di Danimarca; P. aiuta 
il suo re con 5000 cavalieri e libera dall’assedio Pontoise. Si decide di ri¬ 
mettere le sorti della guerra a un duello tra Sornegour e P.; ma i soldati 

Giornali ttorico — Suppl. n* la. 3 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



34 


K. LIVI 


Guglielmotti), poi battezzato Aricele /, il quale ha nel poema fran¬ 
cese la parte che sostiene nel cantare italiano lo scudiero « Marco 
Bello ». Ancelet e Parthenopeus vanno a vivere nel bosco e 
abbandonano i cavalli; Urraque, sorella di Mélior, che naviga 
presso la riva, ode il nitrito delle povere bestie, che lamentano 
i padroni perduti, si inette alla ricerca degli infelici e trova 
Parthenopeus ridotto allo stato selvaggio. Intanto Mélior, invi¬ 
tata dalla corte a scegliersi un marito, bandisce un torneo; ella 
sposerà il vincitore. UiTaque dà a Parthenopeus armi e cavalli 
perchè vi accorra e vinca i numerosi concorrenti, tra i quali è 
il Sultano di Persia, precisamente come nel Bel Gherardino. 
Ma il mattino del torneo, Parthenopeus, impaziente, fugge dal¬ 
l’isola di Urraque su una scialuppa e viene sbattuto dal vento 
nell’isola di Tenedon. La castellana si innamora di lui e non lo 
libera che quando egli le assicura che farà il possibile di ucci¬ 
derle il marito durante il torneo (= B. Gfier., c. II, ott. 28-29). 
Sconosciuto a tutti, Parthenopeus entra in lizza e vince tutti 
i cavalieri, poi si ritira senza alzare la visiera; i medesimi 
prodigi egli rinnova il secondo e il terzo giorno, sempre più 
misterioso e sconosciuto. Alla line del torneo per mantenere la 


di 8. irrompono a tradimento nell’adone e fanno prigioniero P., poi lo resti¬ 
tuiscono. A Blois P. è oppresso da grave dolore, pensando a Mélior, che è 
così lontana (questo episodio è evidentemente un rifacimento del lai di Elitioc 
di Maria di Francia). La madre sua decide di dargli in moglie la figlia del 
re e gli mesce una bevanda che lo inebria; durante l’ebbrezza egli sposa la 
fanciulla, ma appena la forza del beveraggio è sparita, subito P. ha orrore 
del suo misfatto e fugge da Blois, si imbarca sul vascello incantato e ritorna 
da Mélior. Dopo sei mesi, vinto dalla. nostalgia, P. ritorna in patria. La 
madre e il vescovo gli dànno a intendere che Mélior, che egli non ha mai 
visto di giorno, sia un’orribile strega e gli dànno una lampada perchè la possa 
vedere durante uno dei convegni notturni. P., ritornato presso Mélior, reca 
nel letto la lampada ed ammira tutta nuda la bellissima fanciulla. Ella si 
desta e sviene; intanto spunta il giorno e dame e cavalieri, entrando nella 
stanza dell’ imperatrice, vi scoprono l’infedele P. e vorrebbero ucciderlo, se 
non lo difendesse la sorella di Mélior, l'rraques. Accompagnato da lei, fugge 
sulla riva del mare, si imbarca e ritorna a Blois. Quivi si chiude nella sua 
stanza, nè vuole più rivedere la madre, la famiglia, la corte. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI 


85 


parola data, ritorna a Tenedo, ma la castellana, commossa da 
tanta lealtà, gli rende la parola e lo libera. Dopo un lungo di¬ 
battito, i giudici proclamano Parthenopeus vincitore e sposo 
di Mélior. 

Il cantare segue dunque nei suoi tratti essenziali il poema 
francese, ma omette molte parti che sono caratteristiche e belle, 
come la scena della lampada, la vita selvaggia del cavaliere dispe¬ 
rato, e aggiunge il duplice bagno del bel Gherardino desumendolo 
dalla leggenda di Graelent. Probabilmente l’autore del cantare 
non aveva sott’occhio l’intero poema di Parthenopeus, ma un 
compendio in prosa o in verso, forse uno dei numerosissimi testi 
franco-veneti, che sono andati perduti nel grande naufragio di 
quella interessante letteratura. Si noti che il poema di Parthe- 
nopeus fu uno dei più popolari e fortunati in tutta l’Europa ; se 
ne hanno versioni in olandese (t), in islandese, in danese (2), in 
medio-alto-tedesco, in inglese (3); ed è celebre il romanzo Parto- 
nopier und Melinr di Corrado di Wurzburg (f 1287), anch’esso 


(1) Partonopeus und Mélior, Altfr. Gedicht dee XIII. J&hrh. in inittel- 
niederlitod. und mittelhochdeutschen Bruchstficken herausg. von H. F. Mass- 
in&nn, Berlin, 1847; Anton Van Bekkim, De Nieddennederlandsche beicer- 
king van den Parthonopeus-Roman eti bare verhoiuling tot het oudfransche 
origineel, Groningen, 1897 ; cfr. la recensione di G. Paris nella Romania, 
XXVI (1897), p. 575. Il Van Berkum conchiude che il romanzo appartiene 
al primo quarto del sec. XIII. — Intorno alle varie propaggini germaniche 
cfr. E. KOlbing, Ueber die verschiedenen Gestaltungen der Partonopeus- 
Sage, in Germanische Studien, Supplement zur Germania hgg. von K. Bartsch, 
II, p. 109; E. KOlbing, Zu Partonopeu* of Blois, in Englisclie Studien, 
XIV, 435; E. KOlbing, Ueber die nordichen Gestaltungen der Partenopeus- 
sage, Breslau, 1873. 

/ 

(2) Cfr. A. Trampe-BOdtkek, Parténopéus de Blois, Elude comparative des 
versions islandaise et danoise, Udgiret for Hans A. Benneches Fond, Chri- 
stiania, 1904. 

(3) A fragment of Partonope of Blois from a manuscript at Vale Boy al, 
London, 1873; The Middle-English Version of « Partonope of Blois » ed. 
from thè ms. by Adam Trampk-B&dtkbk, London, 1912 [Early English Text- 
Society, Extra Series, n° 109], voi. I; F. Weinuakrtner, Die Mittelenglischen 
Fassungen der Partonopeussage und ihr Verhiiltniss zu dem altfr. Origi¬ 
nale, Breslau, 1888 (Dissert.). 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



36 


1. LEVI 


ispirato alla leggenda francese (1). Persino nella penisola iberica 
la melanconica leggenda trovò ammiratori e rifacitori; ne ri¬ 
mangono una versione catalana ed una castigliana (2). Sarebbe 
davvero desiderabile che qualche cultore della nostra letteratura 
medievale compisse uno studio sulla fortuna deH atfascinante ro¬ 
manzo in Italia. Io ricordo d’aver avuto fra mano lungo tempo 
un grazioso codicetto del Parthenopeus scritto nel sec. XIII da 
mano italiana; quel codice apparteneva nel Trecento alla libreria 
mantovana dei Gonzaga (3). La storia delle vicende e delle pro¬ 
paggini del Parthenopeus in Italia sarebbe un interessante ca¬ 
pitolo della storia delle leggende romanzesche nel medio evo 
italiano. 


VI. 

Pulzella Gaia. 

I due cantari della Pulzella Gaia sono stati scoperti dal Rajna 
in un codice del Quattrocento, che apparteneva alla biblioteca 
Saibante di Verona e poi passò in proprietà del marchese Gi¬ 
rolamo d’Adda di Milano (4). Nel codice il cantare è « vestito 


» 

(1) Konrad von WPrzburg, Partonopier and Meliur ligg. von Karl Bartseh, 
Wien, 1871 ; cfr. H. Look, Per Partonopier Konrads von Wiirzburg und 
der Partonopeus de Binisi, 1881 (Dissert.). 

(2) Historia del esforgado eavallero Partinobles conde de Bles ; y despues 
fue eraperador de Costantinopla, etc., traduc. de la lengua catal. en la nuestra 
castellana, Barcellona, 1842 ; cfr. A. Trampe-BQdtker, Parténopeus in Cata- 
lonia and Spai», in Modem languages Notes, voi. XXI (1906), pp. 234-5. 

(3) È il cod. 7516 delle Nouv. Acq., fonds franyais, della Bibl. Nazion. 
di Parigi. Cfr. V. De Bartholomakis, Liriche antiche dell'alta Italia. Roma, 
1912, p. 3. È citato nell’inventario della Biblioteca dei Gonzaga del 1407. 
n. 30; cfr. Romania, IX, 509. 

(4) Cfr. P. Rajna, Storia di Stefano figliuolo di un imperatore di Roma 
(Scelta di curiosità letterarie, disp. CLXXVI), Bologna 1880, p. vi ; P. Rajna, 
Una versione in ottava rima del libro dei sette savi, nella Romania, VII, 
23. La tavola del ms. (c. 176 a) reca: « suso questo libro he inquadernato 
tre liberi », e i tre liberi sono: 1° Apollonio di Tiro (c. 1-48); 2° Il libro 
dei sette savi (c. 50-174); 3° Ptdzella gaia (c. 177-196). 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS ÀT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI 


37 


per metà alla veneta », in quel dialetto mal celato da numerose 
forme latineggianti, che è comune a tante scritture settentrio¬ 
nali di quel tempo: 

[I] Ora ine intendeti, bona zente, tati quanti 
in chortexia et in bona ventura: 
dire ve volio de li cbavalieri aranti, 
ch’ai tempo antigo andava a la ventura. 

Il Rajna dubita che questo gergo non sia originario, e lo sup¬ 
pone piuttosto un travestimento o una camuffatura dovuti al 
copista veneto ; e perciò nella sua edizione ha ricondotto il poe¬ 
metto alla forma toscana, che egli crede primitiva (1): 

[I] Intendete me ora tutti quanti 
in cortesia ed in buona ventura: 
dire vi vo’ de’ cavalieri erranti 
ch’ai tempo antico andava all’avventura. 

La questione è assai ardua, nè si può risolvere coi soli ele¬ 
menti che offre lo studio interno del testo. Certo il cantare è 
assai più antico della trascrizione veneta che sola ci è rimasta, 
perchè esso è citato in un’ opera della fine del secolo XIV, la 
Sala di Malagigi, anzi anteriore al 1388, se essa è del Pucci, 
come il Rajna crede: 


21 . 

Eravi Marta e Maria Maddalena, 
la Pulzella Gaia col viso piacente, 
appresso a lei la Reina d’Oriente (2). 

Questa citazione della Sala di Malagigi , in cui la Pulzella 
gaia è ricordata accanto ai quattro cantari pucciani della Re- 


(1) P. Rajna, Pulzella gaia, cantare cavalleresco, per nozze Cassin-D’An¬ 
cona, Firenze, 1893. 

(2) Il cantare della Sala di Malagigi fu pubbl. dal Rajna per nozze D’An- 
cona-Nissim, Imola, 1871, dal cod. riccardiano 1091 (sec. XV). In questo ini. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



38 


E. LEVI 


ghia d’Oriente , può ritenersi un buon argomento in favore del¬ 
l’origine toscana del poemetto. 

Il cantare della Pulzella Gaia si ricollega molto strettamente 
con quello del Bel Ghei'ardino ; anche qui il nodo dell’azione 
è nell’amore misterioso di una fata per un cavaliere e nel tra¬ 
mutarsi dell' amore in inditferenza per causa della rivelazione 
del segreto. Ma i particolari del racconto sono differenti: il dono 
della fata, che nel Oherardino è un guanto prodigioso, qui in¬ 
vece è un anello; la rivelazione dell’amore della fata, che nel 
Oherardino avviene per le domande insistenti della madre del¬ 
l'eroe, qui avviene durante un «vanto» alla corte. Questi tratti 
che sono caratteristici della leggenda più antica, il lai di Lanca/ 
di Maria di Francia (1), inducono a pensare che, almeno nella 
prima parte, il cantare di Pulzella Gaia rispecchi una tradi¬ 
zione più pura o più limpida del cantare di Oherardino e più 
direttamente deduca le sue acque dalla letteratura leggendaria 
francese. 

L’argomento del cantare si può scomporre facilmente in due 
parti: 1° (ott. 1-51), 2° (ott. 52-99). Della prima è a fondamento 
l'amore del cavaliere Galvano per una fata, Pulzella Gaia. Alla 
corte di Artù Galvano e Trojano scommettono « chi addurrà più 
bella cacciagione ». In un bosco, durante la caccia, Galvano trova 
una serpe con la quale invano lotta per molte ore; alla fine la 


e, per conseguenza, anche nell'edizione del Rajna, manca la citazione della 
Pulzella gaia, e l’ott. XXI finisce cosi : 

Maria, Marta v'era e Maddalena, 

Catherina pulzella d'Oriente, 

Fata Morgana dal viso piacente. 

Ma questa lezione dev’essere guasta; la legittima è quella ch’io ho dato nel 
testo con la scorta di un altro ms. della Sala di Malagigi, il ricc&rd. 2816, 
c. 121 a. In questo cantare il mago Malagigi, per compiacere a Lucrezia, 
figlia del re Baldacchino, raffigura sulle pareti d’una sala del suo castello le 
immagini di personaggi celebri e di donne leggendarie. Fra le immagini è, 
dunque, anche quella della « pulzella gaia col viso piacente ». 

(1) K. Warnckk, Die Lai# der Marie de France *, p. 96 e segg. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


39 


serpe lo richiede del nome e poi si trasforma in una bellissima 
fanciulla. Ella è una fata, figliuola della fata Morgana ; ed è in¬ 
namorata di Galvano. Ma il cavaliere non può restare con lei 
perchè ha scommessa la vita nel suo vanto con Troiano. Prima 
ch’egli parta, la fata gli dà un anello, per mezzo del quale egli 
potrà soddisfare ogni suo desiderio, e gli raccomanda il segreto. 

Galvano ritorna alla corte con mirabile cacciagione, ottenuta 
per via dell’anello; ed è un uomo felice perchè ha fama, ric¬ 
chezze infinite e l’amore della soavissima Fata (1-28). Ma la re¬ 
gina si invaghisce di lui e, siccome egli non acconsente al suo 
capriccio, lo obbliga a « vantare » nella corte plenaria « la gioia 
più fina » ch’egli possegga. Lo sconsiderato Galvano si vanta di 
possedere l’affetto di una fanciulla « che è il fiore d’ogni donna 
bella »; e per dimostrare la verità del « vanto » si rivolge al¬ 
l’anello e chiede che la Pulzella Gaia si presenti alla Corte. Ma 
ogni preghiera è vana, perchè, infranto il segreto, sparisce la 
virtù dell’incantesimo (29-36). 

Convinto di menzogna, Galvano è condannato a morte ; ma la 
fata si muove a pietà di lui e accorre con uno stuolo di don- 
zelle vestite di nero e di cavalieri, in atto di minaccia. Galvano 
ottiene licenza di dare l’ultima prova di valore e di fedeltà al 
suo re combattendo con gli assalitori sconosciuti. In questo mo¬ 
mento Pulzella Gaia si fa innanzi tra le sue schiere, si rivela 
a Galvano e gli rivolge amari rimproveri per aver palesato il 
segreto; e poi scompare (37-50). 

Tutto questo racconto si svolge con grande fedeltà alla saga 
Lanval-Graelent, ed ha dei tratti che appartengono al lai di 
Graelent e dei tratti che sono invece del lai di Lanval. Il primo 
particolare della Pulzella Gaia, la caccia di Galvano nel bosco 
e l’inseguimento della biscia, che è estraneo al lai di Maria di 
Francia, è uno degli episodi più caratteristici del lai anonimo 
di Graelent (1). Fuggendo da un suo eremitaggio silvestre, un 


(1) Il lui di Graelent si legge in due codd. della Biblioth. Nat. di Parigi, 
frane. 1104, c. 72 b, e 2168, c. 65; fu edito dal Barbazan, Fabliau x et contea, 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



40 


B. LEVI 


giorno il cavaliere Graelent insegue una cerva e giunge sulle 
orme di essa a un ruscello, dove si bagna la fata benefica (t). 

Al lai di Graelent riclùama anche l’altro episodio importan¬ 
tissimo di questo cantare: il vanto, che non trova riscontro nelle 
altre simili elaborazioni leggendarie. Nel lai di Lancal la regina 
olire il suo amore al cavaliere ed essendo respinta lo accusa 
al marito. Nel lai di Graelent gli avvenimenti non hanno tanta 
semplicità: durante le feste di Pentecoste il re, ubriaco, vanta 
davanti ai suoi baroni avvinazzati le bellezze della regina e 
perchè tutti possano vedere coi loro occhi fa porre la regina 
nuda su un palco. Tutti riconoscono che le loro donne non reg¬ 
gono al paragone; solo l’incauto Graelent non partecipa al co¬ 
mune entusiasmo. Di qui lo sdegno della regina, l’invito a 
« vantare » donna più bella, la colpevole rivelazione del nome e 
dell’amore della fata del bosco. Da tutto ciò sembrerebbe esclusa 
ogni relazione del cantare italiano col lai di Maria di Francia 
e parrebbe d’altra parte evidente la sua dipendenza dal lai di 
Graelent. Ma subito ci richiamano a Lanval il nome dell'eroe, 
Galvano, che nel lai di Maria di Francia è l’inseparabile amico 
di Lanval e il suo salvatore: 

229 Ceo dist W a 1 w a i n s, li frans, li pruz 
Ki tant se fìst amer a tuz, 

e il luogo dell’azione, la corte di Artù : 

5 A Kardoeil surjurnot li reis 
A r t u r li pruz e li curteis... 


IV, 57 e segg. e dal Koqueport, Poesie* de Marie de Frutice, Paris, 1832, 
p. 486 [n. XIII] e da G. Gullbero, Detuc Lais du XII• siècle, Kalmar, 
1876; un sunto ne diede [Legrand d’Acssy] , Fabliau# et conte* cit., voi. I, 
pp. 120-132. 

(1) Intorno a questo motivo leggendario cfr. K. Pschmadt, Die Suge voti 
der verfolglen Hindc, ihre Heinuit, Wanderung utul Bedeutung iti der 
Literatur des Mittelaliers, Greifswald, 1913. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
- URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


41 


A la pentecuste en etite 
i aveit li rei» sujurné. 

Asez i duna riches duns. 

E as cuntes e as baruns, 

15 a cels de la Table rotìnde... 
femmes e terrea departi... 

Cosi comincia anche il cantare italiano: 

Dire vi vo’ de’ cavalieri erranti 
ch'ai tempo antico andava alFavventura. 

In corte allo re Artù sedean davanti, 
secondo come parla la scrittura... 

Nello scioglimento dell’avventura il cantare non si attiene nè 
al racconto di Lanval nè a quello di Qraelent. . 

In Lanval, dopo che la regina ha accusato il cavaliere d’averle 
recato onta colle sue villane vanterie, Lanval è condannato 
a provare, pena la vita, la verità del suo amore misterioso. 
Quando già l’ora suprema sta per scoccare appaiono le mera¬ 
vigliose fanciulle che formano la corte della fata ; e poi alla fine 
la raggiante bellezza della fata si presenta davanti agli occhi 
estasiati dei baroni di Artù. Ella s’avanza e, al cospetto del re 
e della corte, arditamente proclama: « Arturo, ascoltami. Un tuo 
vassallo ho amato. Eccolo; egli è Lanval!». 

631 Artur — fet eie — entent a mei... 

Jeo ai anit* un tuen v assai. 

Veez le ci ! Ceo est Lanval. 

E balza in groppa. Lanval, che s’era messo alla posta sopra 
un « perrun do marbré bis » davanti alla soglia del castello, 
quando la fata gli passa innanzi al galoppo, d’un balzo le si getta 
sulla sella. Stretti l’uno all’altra su quella groppa, in un attimo 
essi sono scomparsi. Nessuno udì più parlare di loro: 

663 Nnls n’en oi puis plus parler, 
ne jeo n’eu sai avant cunter. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



42 


K. LIVI 


Il lai di Graelent segue il racconto di Lanval fino alla ap¬ 
parizione e alla scomparsa della Fata; poi procede in maniera 
assai diversa. Graelent balza in groppa a un destriero e insegue 
la fata fuggitiva e raggiunge il ruscello dove egli l’aveva cono¬ 
sciuta per la prima volta. La fata si getta nell’acqua ; Graelent 
la segue, si tuffa e sta per annegare quando la mano della fata 
lo sorregge e lo salva. Disperato perchè la fanciulla gli nega il 
perdono, Graelent si getta un'altra volta nell’ acqua e sta per 
scomparire tra le onde; le damigelle della Fata implorano la 
grazia per lui. La fata lo salva, lo ravvolge nel suo mantello e 
lo conduce nel suo regno. I Brettoni credono che egli Aiva an¬ 
cora; il cavallo, inconsolabile per la scomparsa del padrone, 
corre lungo le rive del fiume annitrendo disperatamente. Se¬ 
condo i critici più recenti lo scioglimento dell’avventura, qual’è 
in Graelent, sarebbe più conforme alla saga brettone primitiva, 
mentre nelle altre parti il lai anonimo potrebbe ritenersi un 
rimaneggiamento della leggenda di Lanval. Lo scioglimento del¬ 
l'azione, qual'è nella versione italiana della leggenda differisce 
sensibilmente da quello delle due versioni francesi. Quando 
Galvano è condannato, la fata appare davanti alla città con uu 
esercito di donzelle e di cavalieri; Galvano ottiene di combat¬ 
tere contro gli ignoti assalitori; tra essi riconosce ramante, ne 
ascolta i rimproveri; e poi la perde di vista. Bisogna dunque 
escludere ogni relazione diretta tra i due lais brettoni e il can¬ 
tare italiano. Il cantastorie o ha lavorato liberamente di fantasia 
su gli incerti ricordi della lontana leggenda o. più probabil¬ 
mente, si è servito di un testo, in cui il motivo originario della 
saga brettone era già profondamente modificato e corrotto. 

La seconda parte del cantare (ott. 51-99) ci porta assai lontano 
dalla leggenda dei lais brettoni. Scomparsa la Pulzella Gaia, 
Galvano si mette alla ricerca di lei e giunge a un castello dove 
abitano cento fanciulle che piangono la triste sorte della fata: 
per essere stata amata e rivelata da Galvano, ella è stata con¬ 
dannata dalla madre, la fata Morgana, a perpetua prigionia. Gal¬ 
vano capita in un’altra rocca, dove una dama vuol farlo prigio- 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
- URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


43 


niero; ma egli si difende cosi valorosamente che ella, non che 
perdonargli, si innamora di lui. Ma Galvano non acconsente alle 
nozze, se ella non gli rivela dove sia relegata la fata. E cosi 
Galvano apprende dov’ è la sua donna : in fondo a una torre, 
nella città di Pela Orso. Galvano tenta di penetrarvi travestito 
da mercante; respinto dalle guardie, ricorre alla violenza, sot¬ 
tomette la città e pone assedio alla rocca (77-89). Pulzella Gaia 
dal fondo della torre invia a Galvano una lettera consiglian¬ 
dogli un'astuzia per mezzo della quale penetrare nella torre ; 
parta dalla città e ritorni dopo quindici giorni, vestito di rosso. 


con cento cavalieri travestiti con abiti femminili di color verde. 


Quelli sono i colori della Dama del lago, sorella della fata Mor¬ 
gana, sicché le guardie saranno tratte in inganno e apriranno 
le porte. E cosi infatti avviene (89-99); Galvano libera la sua 
innamorata e al posto suo, in fondo all'orrida torre, rinserra la 
crudele Morgana. 

Della complicata avventura, che forma la seconda parte del 
cantare, si ha un’eco nella Tavola i'i tonda, dove Breus « sanza 
pietà» rimprovera Tristano e ogni cavaliere innamorato (1): 


Deh, per inala ventura, disse Breus, e come si può Tuonio fidare di voi, 
che per più fiate avete tolta la reina Isotta allo re Marco? E Lancialotto, 
fratello di codesto traditore, à fatto il somigliante allo re Artù; e anche non 
è grande tempo che Cai vano tolse la Gaia Donzella alla Fata Mor¬ 
gana; e tutti andate per tal via, e non curate dell’altrui disonore, pure che 
a compimento venga vostra volontà ! 


Nei cap. LXXX e LXXXI della Tavola un altro lungo e inte¬ 
ressante racconto (2) spiega e illumina assai bene le strane vi¬ 


ti) Cfr. la Tavola ritonda o l’istoria di Tristano, pubblicata per cura di 
Fil. Luigi Polidori, Bologna, 1864 (Collez. di opere inedite o rare, ed. dalla 
R. Commissione pe’ testi di lingua, voi. VITI), P. I, p. 487. 

(2) Cfr. la Tavola ritonda, I, pp. 294-803. Lo stesso racconto dell’arrivo di 
Tristano al castello della Fata Morgana e dell’uccisione di Huneson si ha 
anche nei mss. francesi del romanzo in prosa di l'riston ; ma nella redaz. fran¬ 
cese non v’è traccia alcuna deU’avventura di messere Burletta nè degli amori 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



44 


I. LETI 


eende riferite alla line del nostro cantare. Siamo nel castello 
di Palami (poi diventato « Pelaorso » sulla bocca del cantastorie): 
da ogni lato si innalzano mirabili muraglie di marmo e di co¬ 
rallo. Tristano vi capita, cavalcando attraverso una diserta 
landa, e vi apprende che del luogo è signora la fata Morgana, 
sorella della Pulcella del Lago nonché di re Artu. Al mattino 
Tristano ha la ventura di ammirare da vicino anche la nostra 
eroina: 

... e vetro venire li una donzella, e portava in sua mano uno barino d'oro 
e uno vasello ove aveva acqua rosata, e una benda di seta, e fe* lavare a 
messer Tristano sue mani e suo visaggio. E a tanto, ecco lì venire una don¬ 
zella di dodici anni, tanto bella e tanto avvenente e tanto leggiadra quanto 
la natura meglio sapesse formare; più bionda che fila d’oro, con due occhi 
vari in testa, onesti, e il suo bello parlare si era dolce e soave e rado; e in 
sua inano ella portava una coppa d’oro. E Tristano molto amorosamente ri¬ 
guardava quella bella donzella e fra sé stesso diceva ch’ella era molto bella 
e avvenente. E la Fata Morgana — la quale sapeva molte cose ed era saggia 
— accorgendosi dello mirare di Tristano, gli disse: 

— Sire cavaliere, questa è mia figlia. E quanto a voi piacesse, certo io la 
vi donerei a dama! — 

Tristano prende commiato e tanto cavalca « che fue in cima 
della montagna petrosa, di lungi dallo castello di Pellaus una 
lega » ; qui affronta ed uccide un cavaliere sconosciuto che è 
appunto « Onesun lo calvo », drudo della fata Morgana e padre 
della povera Gaia Pulcella. Proseguendo nel suo cammino, Tri¬ 
stano incontra un altro cavaliere, che va alla ricerca di Lancillotto 
per vendicare un affronto. Quel cavaliere é un innamorato della 
Pulzella Gaia. 

Venendo un giorno ch’io cavalcava — egli racconta — presso allo castello 
di Pellaus (= Pela Orso) e mirando in uno giardino, vidivi l'amore mio... 


della Pulzella Gaia. Cfr. E. Lòseth, Le rornati en jtrose de Tristan, Ut 

roman de Palamede et la cotnpilation de Bueticien de Fitte, Paris, 1890 (Bi- 

# _ 

bliothique de l'Ecole de» haute» elude», voi. LXXXII), p. 136 e seg. 


Digitrzed by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


45 


ciò è quella Gaia Pule e Ila... E allora io non fui tardo, ma tantosto presi 
la donzella per lo braccio e pulsimela davanti a l’arcione e portaimelane via con 
grande allegrezza. E vero si è che la donzella ancora non sentiva d’amore, e 
continovo veniva piangendo. Essendo dilungato io dal castello Pellaus bene 
da tre leghe, e trovando una bella fontana, io scavalcai la donzella e molto 
la prendeva io a confortare e forte lavare suo visaggio e sue mani bellis¬ 
sime... E vedendola tanto bella e tanto leggiadra e lo suo bello viso adorno, 
oominciàle a baciare quelle sue labbra sottili vermigli e a toccare suo bianco 
petto colle piccioline mammelle; e appresso le mirava il corpo e le nobili 
membra, morbide e gentili, sicch’io veggendola tanto leggiadra, non poteva 
raffrenare mia volontade. 

Ma sul più bollo accorro Lancillotto © rovescia sconciameute 
l’ardito amatore giù per le terre; offeso da quel brutto tratto 
il cavaliere della Gaia Pulzella dopo di allora non si dà pace 
finché non abbia vinto e abbattuto Lancillotto o chiunque ne 
prenda le difese e la parte. Per questa ragione quel buffo e 
tristo cavaliere affronta Tristano, amico del suo persecutore; la 
sorte gli è ancora una volta sfavorevole ed egli deve arren¬ 
dersi per vinto e partire per la Cornovaglia a costituirsi pri¬ 
gione nelle mani di Lancillotto. Melanconicamente prende il suo 
cammino, ma giunto in cima a un grande ponte, si arresta: 

... e Tristano lo guardava, credendo ched e’ fusse pentuto. E pensando 
Burletta tanto duramente, sì che nel suo pensare si deliberòe che meglio gli 
era dello morire subito che andare per venire alle mani del piii mortale ni¬ 
mico ch’egli avesse in questo mondo; e allora insuperbie nel suo cuore e sie 
si dispera. E poi esce dello suo arcione dello auferrante, e gittòssi nello cor¬ 
rente fiume; e subitamente egli fue annegato. 

L'infelice amante della Pulzella Gaia porta un nome che è 
insieme comico e triste, quasi a simboleggiare l'intricato gro¬ 
viglio di comico e di tragico di che ò fatta la sua avventura e 
la vita di tutti: egli si chiama messer Burletta della Diserta. 




Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



46 


E. LEVI 


VII. 

Li ombru no. 

Il motivo iniziale della leggenda di Liombruno è identico a 
quello dei cantari del Bel Oherardino e della Pulzella Oaia: 
il fatto più cospicuo è anche qui l’amore segreto di un giovane 
mortale per una fata immortale, la perdita della fata per l'in¬ 
cauta rivelazione del segreto e in fine la riconquista di essa 
dopo mille svariate e prodigiose avventure. 

Liombruuo, tiglio d’uu pescatore, è abbandonato in un’ isola 
deserta in preda del diavolo. Ma un'aquila lo ghermisce, lo 
porta cosi in alto che il calore della sfera del fuoco gli brucia 
i capelli, e lo depone in un castello, dove subito ella si trasfi¬ 
gura e appare una bella fanciulla di dieci anni. Ella è madonna 
Aquilina. Liombruno e Aquilina si amano e dopo qualche anno 
si sposano. Ma in fondo al cuore di Liombruno vi è una spina 
che punge : il desiderio della patria lontana. Anche il bel Ghe- 
rardino, nelle stesse condizioni, è profondamente tormentato 
dalla nostalgia e non ha pace sin che l’amica non gli dà il con¬ 
gedo. Da monna Aquilina Liombruno, al momento del commiato, 
ottiene in dono, come Galvano da Pulzella Gaia, un anello pro¬ 
digioso, che corrisponde al guanto fatato della leggenda del Bel 
Oherardino (i-23). 

^ w è 

Notiamo che quell'elemento sentimentale, la nostalgia del¬ 
l’eroe, non appare nelle versioni originarie francesi, ed è invece 
costante nelle propaggini italiane. Non è Lanval che desidera 
il ritorno; è la fata stessa che bruscamente lo licenzia (1): 

159 Ainis — fet eie — levez sus! 

Vus n"i po£z demurer plus. 

Alez vus en; jeo remeindrai. 


(1) Marie de Fka.nce, Imìs de Lanval, ed. K. Warncke cit., p. 92. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI 


47 


Invece Gherardino ha « bramosa doglia » della sua città lon¬ 
tana, e Lioinbruno, tra le carezze di Aquilina, rimane sempre 
« neghittoso e corrucciato ». Questa melanconica velatura di no¬ 
stalgia nei canti del nostro popolo, di cui si son tante volte 
descritti l’indifFerenza e lo scetticismo, merita alla fine di essere 
posta in evidenza. Lioinbruno ritorna in patria con un ricco 
corredo di vesti e di gioielli e con una valigia « fornita di fio¬ 
rini »; quand’è sul punto di ripartire, apprende che in Granata 
vi è uno splendido torneo, in cui al vincitore è riserbata la 
mano della principessa ereditaria. Lioinbruno accorre, abbatte 
i cavalieri, è proclamato vincitore. Ma il re di Granata, prima 
di concedere allo sconosciuto la mano della figlia, provoca un 
vanto , durante il quale egli abbia occasione di rivelare un poco 
la sua vita e il suo animo. A malincuore Liombruno accetta di 
vantarsi e vanta — manco a dirlo — le bellezze di Aquilina. 
Il re gli concede trenta giorni per provare la verità del vanto 
(33-43). Invano Liombruno invoca dall’anello fatato l’arrivo di 
Aquilina. Egli ha infranto il segreto e il potere magico del¬ 
l’anello è scomparso. Al trentunesimo giorno, quando Liombruno 
deve essere condotto al supplizio, appare una fanciulla. — È 
tua moglie ? chiede il sultano. 

Ei rispondea: — No, dolce messere. 


Arriva una seconda donzella, e il sultano rinnova la domanda ; 
ma Liombruno risponde che l’una e l’altra fanciulla sono dami¬ 
gelle della sua principessa. E infine arriva Aquilina, così sfol¬ 
gorante di bellezza che il re, umiliato, chiede perdono a Liom¬ 
bruno (44-46). In questo tratto il Cantare di Liombruno 
aderisce strettamente al lai di Lanval (v. 473 e sgg.). Lanval 
sta per essere ucciso, alla presenza di tutta la corte di Artù, 
quando (1): 


... dona pnceles virent venir 


sur dous 


Is palefreiz amblanz. 


(1) Marie de Frante, Luis, p. 105. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



48 


E. LEVI 


Mult par esteient aven&nz ; 
de cendal parpre bunt vestues 
tut senglement a lur oliare nuee. 

He Artù domanda a Lanval se una delle due è la sua sposa ; 
« il li a dit : — Ne sai ki sunt... ». Ed ecco appaiono altre due 
meravigliose fanciulle su due mule spagnuole. Nuova domanda 
del re e nuovo diniego di Lanval (514-536). La folla s’apre per 
la terza volta e su un bianco palafreno s’avanza una donna 
chiusa in un camice candido che fa meravigliosamente spiccare 
la delicatezza delle carni e il fulgore dei biondi capelli. Nes¬ 
suno osa guardarla, cosi splende quella divina apparizione : 
Lanval, tra i ceppi, piange e sospira; e quel sospiro è una con¬ 
fessione : 


611 Li sans li est inuntez el vis; 
de parler fu alkes hastis. 

— Par fei — fet il — ceo est m’amie! — 

Nel cantare Liornbruno l’ingenuo poeta non ha còlto la fi¬ 
nezza psicologica di quella situazione; invece la rimatrice del 
secolo XII ha tratto dal motivo tradizionale l’impeto alato d’una 
sublime poesia. 

Ancbe lo scioglimento dell’azione ù nei cantari nostrani assai 
meno poetico che nel lai brettone: non vi è piu l’ardita apo¬ 
strofe della Fata al re Artù, non più il balzo di Lanval sulla 
groppa del cavallo che scalpita, non più la fuga del cavaliere e 
della Fata strettamente abbracciati sullo stesso destriero, che 
via galoppa e scompare. Madonna Aquilina toglie a Liornbruno 
armi e cavallo e lo lascia solo in un bosco. Nel bosco tre bri¬ 
ganti stanno disputandosi la preda, un pugno di fiorini, un paio 
d’usatti e un mantello. Invitato a sciogliere la contesa, lo scaltro 
Liornbruno indossa il mantello, calza gli usatti, prende i fiorini 
e scompare. Arriva a un’osteria e chiede invano notizia di ma¬ 
donna Aquilina. Gli viene indicato un eremo dove convengono 
i venti, che tutto vedono; e ivi si reca. È ospitato dal romito 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAU3N - 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


49 


e assiste all’arrivo di Garbino, Greco, Tramontana, ecc. Ma nes¬ 
suno conosce Aquilina, tranne il saputo e linguacciuto Scirocco, 
il quale invita Liombruno a seguirlo l'indomani. Per virtù del 
mantello e dei miracolosi usatti, Liombruno è più veloce del 
vento e lo precede sulla vetta d’una montagna, dalla quale si 
scorge il castello di Aquilina. Non visto, Liombruno siede ac¬ 
canto ad Aquilina, le toglie dal tagliere il boccone, ma vi fa 
su scivolare l’anello di sposo (cant. II, 38-42). A quella vista 
Aquilina sviene ed è portata a letto. Ma lo scaltro Liombruno 
le appare immediatamente anche qui e immediatamente scom¬ 
pare per virtù del mantello. Alla fine Aquilina riesce a gher¬ 
mirne un lembo prima che Liombruno se lo sia compiutamente 
ravvolto d’intorno : ne seguono il riconoscimento degli sposi, gli 
abbracci e la pace. 

Il secondo cantare, che comprende questa prodigiosa ricon¬ 
quista di Aquilina, non ha riscontro nei lais brettoni nè, credo, 
nella letteratura del medio evo, ma si svolge invece intorno a no¬ 
tissime leggende del folk-lore tradizionale. Il mantello che rende 
invisibile, gli usatti che rendono più veloce del vento colui che 
li calza, sono usciti evidentemente dallo stesso arsenale che ha 
fornito al popolo Panello che fa starnutire, il fischio che fa bal¬ 
lare, la tovaglia che dà a mangiare, la borsa dalla quale esce 
il denaro senza fine (i). Nè solo negli elementi, ma anche nella 
composizione e nella struttura il cantare di Liombruno si avvi¬ 
cina a moltissime favole popolari. Nelle Kinder- und Hnusmàr- 
chen dei fratelli Grimm si ha un racconto quasi identico (n. XCII). 
Il figliuolo d’un pescatore abbandonato al diavolo e posto in una 
barchetta approda a una spiaggia sconosciuta; ivi compie molte 
prodezze, libera la figlia del re e la sposa. Ma poco dopo, vinto 
dalla nostalgia, torna in patria col sussidio di un anello magico 
fornitogli dalla sposa. Il padre rimane sorpreso del suo ritorno, 


(1) Cfr. G. Pitrè, Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, Palermo, 
1875, voi. I, p. 238. 

Giornale storico — Sappi. n“ !•. * 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



50 


K. LEVI 


ma non vuol credere che egli sia il marito d’una principessa ; 
l’incauto figliuolo, per convincerlo, chiede all'anello che la sua 
sposa apparisca. Ella infatti accorre, ma subito scompare por¬ 
tando con sè il magico anello. Rimasto solo e abbandonato, il 
figlio del pescatore si mette per via e trova tre fratelli che 
stanno disputando intorno alla ripartizione della loro eredità, 
un mantello, un paio di scarpe e una spada. Gol pretesto di scio¬ 
gliere la contesa egli s’impadronisce di quei tre oggetti fatati 
e con essi riesce a riconquistare la sposa. 

Reinhold Kòhler, per il quale gli scrigni della fantasia popo¬ 
lare non avevano segreti, ebbe ad accostare alla novella dei 
Grimm molte altre versioni d’ogni parte d’Europa (i). In quelle 
magiare e norvegesi la perdita dell’anello avviene in un modo 
simile a quello narrato dal nostro Cantare, cioè per la rivela¬ 
zione dell’amore della sposa in un « vanto » compiuto alla corte 
del re. Per il particolare dell’ incredulità e della curiosità pa¬ 
terna la favola tedesca dei fratelli Grimm si avvicina, più che 
a Liombruno, al cantare del Bel Gherardino , in cui però la 
curiosità è attribuita, più opportunamente, non al padre, ma 
alla madre. 

Nelle consimili novelle danesi, rumene e ungheresi il pesca¬ 
tore, in cambio del denaro, non promette al diavolo il figlio, 
come nel cantare di Liombruno, ma tutto quello che ha in casa 
o tutto quello che sua moglie tiene sotto la cintola, ben sapendo 
che nè in casa nè indosso alla moglie v’era cosa alcuna. Questo 
tratto d’arguzia, che evita l’inumanità di quella cessione del figlio 
al diavolo, sembra al Kòhler originario, sicché la fiaba italiana, che 
ne è mancante, dovrebbe giudicarsi più tarda e più torbida delle 
altre versioni europee. Ma il ragionamento si potrebbe rove¬ 
sciare, pensando che la semplificazione sia opera di un tardo 


(1) G. Widter, A. Wolf, K. KAhler, Volktnnàrchen atis Venedig, in Jahr- 
buch fiir romantiche und engltiche Literatur, hgg. von L. Lemke, Leipzig, 
1866, voi. Vn, p. 147. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
tìft&WHIHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


51 


rimaneggiatore della leggenda, e non primitiva. Chi può arro¬ 
garsi il diritto di definire le leggi e le strade dello spirito 
umano ? 

Dal cantare di Liombt'uno derivano infinite leggende popolari 
italiane, che il Kòhler enumera nell’introduzione ai Lais di 
Maria di Francia editi da Carlo Warncke (1), e sono queste: 

Toscana: V. Imbruni, La Novellato fiorentina , n. XXXI. 

D. Comparetti, Novelline popolari italiane, n. XLI. 
Tuscan Fairy Tales , London, s. a., n. X. 

T. F. Crane, Italian Popular Tales, London, 1885, 
p. 351. 

Abruzzi: A. De Nino, Usi e costumi abruzzesi , voi. Ili (Fiabe), 

Firenze, 1883, n. LX1X. 

Sicilia: G. Pitrè, Fiabe, novelle e racconti popolari sici¬ 
liani, n. XXXI. 

Veneto : G. Widter e A. Wolf, Volhsmàrchen aus Vettetien, 

Leipzig, 1866, n. X [Der arme Fischerknabel. 

G. Alton, Proverbi, tradizioni e aneddoti delle valli 
ladine orientali, Innsbruck, 1881, p. 131. 

Che tutte queste versioni popolari derivino dal nostro vecchio 
cantare, lo prova l’alterazione del nome dei due eroi, Liombruno 
e Aquilina. È evidente che il nome originario della fata è quello 
del cantare ; esso è tratto dall’aspetto d’aquila che la fanciulla 
assume al principio della favola. Nelle versioni toscane dell’Im- 
briani e del Comparetti, il limpido e chiaro Aquilina del « can¬ 
tare » diventa Colina e Chitina, in quella abruzzese addirittura 
Culina e Culinda, in quelle trentine Chelina. Nella fiaba sici¬ 
liana pubblicata dal Pitrè (La ’mperatrici Tresibonna) ma¬ 
donna Aquilina prende il titolo e il nome di imperatrice Tre- 
bisonda e Liombruno, poveretto, semplicemente quello di Peppi 
(« ca a lu picciriddu cci misiru [nome] Peppi »). 


(1) Ed. cit., p. oxvi e segg. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



52 


B. LEVI 


Del resto la popolarità di Liombruno è attestata dal numero 
delle stampe: quattro del sec. XV, sei del XVI, quattro del XVII, 
una del XVIII, una dozzina del XIX. Nelle Facezie del biz¬ 
zarro cremonese Poncino della Torre (t) è ricordato un certo 
Filippo Mastrucci che, datosi alla poesia, « cominciò a voltare 
« quando Buovo d'Antona, quando dama Rovenga del Martello, 
«quando Aiolfo di Barbiconi, quando la vita del francese Gar- 
«guantuaso, e quando la frottola di Liombruno», e notte e 
giorno stentava por ficcarsi in testa i versi di quelle gaglioffe 
barzellette. Nel c. XVII di Bertoldo , Bertoldino e Cacasenno 
compare un giovanotto : 

istivalato e avvolto in mantel brano 

che il copre e par gli metta al corso i vanni. 

Dice Marcotte allor: — Questi è Liombruno 
che fece col mantello vari inganni. 

Anche Filippo Pananti nel Poeta di teatro (c. XXIV) ricorda 
una volta il mantello di Liombruno : 

mi turo, mi rannicchio, mi nascondo, 
il mantello vorrei di Liombruno. 

Nei nostri giorni gli usatti di Liombruno furono rievocati in 
una delle sue più soavi poesie dal mago prodigioso della lette¬ 
ratura popolare, Sèverino Ferrari (2). Chi non ricorda l’accorata 
Nostalgia (1888)? 

Non so se i dolci amici di Spezia e di Livorno 
di Modena e Bologna e Firenze e Milano 
m'abbian cader lasciato giù via da l’aureo corno 
de la memoria, come un fior vizzo di mano: 


(1) Le piacevoli et ridicolose facetie di M. Poncino della Torre Cremo¬ 
nese di nuovo ristampate, ecc., Venezia. 1626, c. 67 b. La curiosa testimo¬ 
nianza fu rievocata dall’ Imbriani, Novellaia fiorentina *, p. 472. 

(2) S. Ferrari, Versi, Modena, 1892, p. 78. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
- URBANA-GHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


58 


io so che spesso a mensa & canto a lor m'assido, 
trovan vuoto il bicchiere, ed io li guardo e rido (1). 

m 

Perch’io son Liombruno; e se donna Aquilina 
rn’ha dato il caro amore e in esso mi consolo, 
pur tengo il par d’usatti ; cammina che cammina, 
arrivo insiem co’l vento (2); e in dosso ho il ferraiuolo 
con che, non visto, o amici, a voi sono presente; 
e fo come la spugna, che beve e non si sente. 

Il cantare di Liombruno non si trova nei manoscritti, ma ci 
fu tramandato da una numerosa serie di stampe popolari della 
fine del Quattrocento (1485-1495), del Cinquecento (1550-1570), 
del Seicento ed anche più recenti, fino ai nostri giorni. Le ver¬ 
sioni sono due, l’una più antica (sec. XV e XVI), che ha 97 ot¬ 
tave e l’inizio « Onnipotente Dio che nel ciel stai », l'altra mo¬ 
derna che comprende 91 ottave e incomincia : « Dammi aiuto, 
chè puoi, musa divina ». 

Rispetto alla versione antica, quella moderna edita dallTrn- 
briani (3) ha molte e profonde varianti, non solo formali, ma 
anche nell’argomento. Tutto quello che nel poemetto primitivo 
era più ingenuamente fantasioso, fu messo da parte. Il diavolo 
al quale il pescatore cede Liombruno è trasformato in un cor¬ 
saro turco : 


1-4 « a un'isoletta del mare arrivò 

ed ivi un gran corsaro ha ritrovato. 

Pare che il senso del mirabile e dell’ infinito si sia assotti¬ 
gliato nel nostro popolo, attraverso i secoli. Quando Liombruno 
si reca alla cella del romito e batte all’uscio, l’eremita, nella 


(1) Liombruno, c. IT, ott. 38*39. 

(2) Liombruno, c. II, ott. 34. 

(3) La redazione moderna fu pubblicata da Vitt. Imbuì am. La novellata 
fiorentina, fiabe e novelle stenografate in Firenze dal dettato popolare *, 
Livorno, 1877, p. 454 e segg. ; la redaz. antica nel Fiore di leggende, III. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



54 


B. LITI 


sua solitudine, tutto timoroso, si rifiuta di aprire. Liombruno 
allora invoca la Vergine; e la porta si apre (li, 22): 

e quel romito forte si assicara 
chiamar sentendo la Vergine pura. 

Nella redazione moderna l’eremita apre la porta, non già per 
pietà verso la Vergine, ma perchè Liombruno s’è tolto il man¬ 
tello od egli ha riconosciuto che il suo viso non è quello d’uno 
scavezzacollo : 

e quel romito forte si assicura 
vedendo di persona la figura. 

Nell’antica storia due volte interviene Iddio stesso per ispi¬ 
rare il romito (II, 25-28): 

e quel romito, ch’è da Dio ispirato... 

Ebbene : e l’una e l’altra volta nelle stampe moderne all’ispi¬ 
razione divina è sostituito l’invito di Liombruno : 

e quel romito da lui invitato... 

Poco dopo l'eremita offre da cena al suo ospite: due bocconi 
semplicissimi, perchè egli trae il conforto della vita da ben altro 
che dai piaceri della tavola, dalla sublime presenza di Dio e 
degli Angoli : 

11-32 E quel romito da cena gli dava 
di quelle cose che per lui avia; 
l’angiol del cielo si lo visitava. 

Nelle stampe moderne anche l’intervento dell’angiolo del cielo 
viene escluso ; invece dell’ispirazione ascetica abbiamo la più 
positiva e prosaica preparazione della cena in cucina, tra ba¬ 
rattoli e casseruole : 

e quel romito da cena gli dava 
di quelle cose che per lui avea ; 
e mentre che per ciò gli preparava... 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIAN 


55 


Nel cantare antico sono costantemente in scena il diavolo, 
Iddio, la Vergine, un angelo ; in quello moderno il diavolo, 
Iddio, la Vergine e l’angelo sono messi fieramente alla porta e 
sostituiti con persone vere, di carne e d’ossa. La « degrada¬ 
zione » della leggenda è compiuta ; la fantasia si spegne e la 
prosa della vita uccide la bella ingenuità primitiva, la credula 
fede degli avi. 

A quale tempo appartiene la storia di Liorabruno ? Le prime 
stampe appartengono al decennio 1480-1490, ma io credo di 
poter affermare con piena sicurezza che la composizione dei due 
cantari risale almeno ad un secolo prima (1380). 

Le usanze e i costumi descritti in questo poemetto sono ben 
antichi, e non è possibile collocarli in pieno Rinascimento. Aqui¬ 
lina, quando Liombruno se ne innamora, ha dieci anni soltanto, 
il che ricorda subito il lamento dantesco che per le ragazze 
fiorentine « il tempo e la dota fuggien quinci e quindi la mi¬ 
sura » (Farad., XV, 105). Anche nel cantare di Gibello , che è del 
Trecento, madonna Argogliosa, quando ospita per la prima volta 
il suo sposo « era di nov’anni, molto bella ». Prima che Liom¬ 
bruno parta, Aquilina lo arma cavaliere ; gli cinge la spada 
e gli dà gli speroni d’oro. Dopo questa cerimonia Liombruno 
diventa messere (XXIV, 7-8) : 

e fatto questo... 

messere Liombruno era chiamato. 

Tutto questo ci richiama a tempi assai antichi, nei quali la 
cavalleria non era ancora rinvilita e negletta. Si aggiunga che 
l’arte del cantastorie è in Liombruno assai primitiva ed in¬ 
genua. I versi si reggono molte volte solo per le licenze della 
recitazione accompagnata dalla musica e fors’anclie dal tramestio 
di un irrequieto uditorio (1); le ripetizioni sono frequentissime, 
non già per la povertà d’ispirazione del poeta, ma per un espe- 


(1) Spesso si ha la dialefe: XVI, 4; XXXIX, 1; XLVIII, 6; sec. cant., 
VII, 3, ecc. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



56 


E. LEVI 


diente di memoria del cantore, che in quei tratti simili trovava 
un riposo e un richiamo a seguire. Molti versi sono ripetuti 
due volte o anche tre nel corso delle non moltissime ottave dei 
due cantari (i). 

Chiunque abbia qualche pratica della letteratura delle origini 
ed abbia un poco di gusto, subito scorgerà nel frasario e nel¬ 
l’atteggiamento del pensiero e della parola di questo testo, dei 
caratteri non dubbi di antichità. Un fatto assai importante si è 
che alcuni versi di Liombruno si ritrovano tali e quali uei 
cantari del Pucci e nel Del Gherardino , che ò certo della prima 
metà del Trecento. Il verso: « Di niuna parte lo potean vedere» 
(cant. 11, ott. VII, v. 8) è press’a poco quello del Gherardino 
(cant. I, ott. XX, v. 2) : « Che chi ’l facesse non potean ve¬ 
dere ». Il verso (I, XXVI, I): 

G quando apparve l’alba dello giorno 


si ritrova altre due volte nella poesia leggendaria del Trecento: 
nella Regina d’Oi'iente (cant. Ili, ott. XXXVI, v. 1) e nel Ghe¬ 
rardino (cant. I, ott. X, v. 7). Dedurne che Liombruno sia 
del Pucci, sarebbe audace; ma il dedurne che Liombruno appar¬ 
tenga ai tempi del Pucci non varca i limiti della più oculata 
prudenza. 

Del resto dell’antichità di Liombruno si ha una traccia bel¬ 
lissima proprio al principio del poemetto. Prima di entrare in 
argomento, il canterino si diffonde in un lamento sulla povertà 
e dice (ott. II, v. 1 e sgg.): 

Signori, intendo che per povertade 
molti nel mondo son mal arrivati, 
hanno perduta la lor libertarie, 
la povertà sì forte gli ha cacciati. 


(1) Eccone l’elenco: 

1° cant. I, ott. XXVI, v. 8 = XXXII, 5; 2° cant. I, ott. XXIV, 1 = 
XXXV, 1 = XXXVHI, 5; 3» — I, XLVII, 8 = cant. II, II, v. 7; 4» — I, 
XXX, 8 = cant. II, XIX, 8; 5° — II, XX, 1 = cant. II, XXIII, 1 ; 6« — II, 
XXV, 1 = cant. II, XXVIII, 1; 7° — I, XVII, 7 = cant. II, XLI, 6. 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
-- URBANA-CHAP4 PM GN- 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


57 


Quell’ io intendo , che pare una zeppa insignificante, è invece 
una onesta citazione : infatti i versi che poi seguono sono tratti 
da uno dei capitoli alla Vergine di maestro Antonio da Ferrara: 

... chi distrugge la sua facultade 

per sua diffalta ognuno ’1 fogge e schiva. 

35. 

chè troppo dà ragion la povertade 
all’uom di viver male e sì ’l fa servo 
e venditor della sua libertade (1). 

I capitoli dello sbrigliato canterino ferrarese furono composti 
nel 1340-1357 (2); nè credo ammissibile che la citazione di essi 
sia posteriore di molti anni alla data della loro composizione, 
perchè ben presto essi dovettero cadere per sempre dalla me¬ 
moria degli uomini. 


Vili. 

Istoria di tre giovani disperati e di tre fate. 

Come il cantare di LiomJbruno racconta i miracoli di un paio 
di usatti e di un mantello, questa istoria s’aggira su quelli di 
un corno prodigioso, di un tappeto e di una borsa. Tre giovani 
« disperati » ottengono da tre belle fate il dono di quegli og¬ 
getti magici, che l’uno di essi, il più sciocco, si fa rubare da 
una regina di cui si innamora. Ma dopo la perdita sciocca, suc¬ 
cede la scaltra riconquista; Biagio ritrova due piante di fichi, 
delle quali la prima dà frutti che fanno crescere la coda e la 


(1) Rime e prose del buon secolo della lingua tratte da manoscritti [da 
Telespoko Bini], Lucca, 1852, p. 33. 

(2) Cfir. E. Levi, Antonio e Niccolò da Ferrara poeti e uomini di corte 
del Trecento, negli Atti e Memorie della Dep. Ferrarese di storia patria, 
voi. XIX, Ferrara, 1909, p. 174-182. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



58 


I. LETI 


seconda frutti che la fanno scomparire. Con un paniere di quei 
fichi Biagio va alla corte ; la regina e le damigelle, per via di 
quei frutti, diventano caudate. Biagio si finge medico, guarisce 
coi fichi della seconda pianta le damigelle, accorcia di due palmi 
la coda della regina e prima di compiere interamente la cura 
e la guarigione si fa mostrare il tesoro e riesce a riprendersi 
la borsa, dalla quale escono quanti fiorini si vogliono, il corno 
che a sonarlo fa comparire un esercito, e il tappeto che fa vo¬ 
lare per l’aria. 

Questo cautare si riannoda ad infiniti racconti popolari ana¬ 
loghi, che hanno probabilmente la loro comune origine in alcune 
leggende orientali. Ma fortunatamente in mezzo alla selva delle 
tradizioni noi possiamo additare un riscontro medievale della 
istoria italiana in un capitolo dei Gesta Romanot'um (CXX) 
intitolato «I)e ainicitiae verae probatione » (1). Dario aveva 
tre figli: al primogenito lasciò in eredità il regno, al secondo 
le ricchezze acquistate durante la vita, al terzo « tria jocalia 
« pretiosa scilicet anulum aureum, monile, et pannum pre- 
« tiosum. Anulus illam virtutem baimit quod qui ipsum in di- 
« gito gestabat, gratiam omnium habuit intantum quod quidquid 
« ab eis peteret obtineret. Monile illam virtutem habuit quod 
« qui eum in pectore portabat, quidquid cor suum desiderabat 
« quod possibile esset, obtineret. Pannus illam virtutem habuit 
« quod quicunque super eum sederet et intra se cogitaret ubi- 
« cunque esse vellet, subito ibi esset ». Siccome il figlio, Gio- 
nata, era ancora giovane ed inesperto, la madre, dei tre oggetti 
non gli diede che l’anello, consigliandolo di guardarsi dalle donne. 
Ma Gionata si innamorò d’una fanciulla e per lei chiese dal¬ 
l'anello infinite ricchezze. La donna si incuriosi di quella mira¬ 
colosa fonte di danaro, chiese delle spiegazioni e alla fine rubò 
l'anello. Gionata andò dalla madre, la quale, dopo molti rim¬ 
proveri e nuovi ammonimenti, gli consegnò il monile. Ritornato 


(1) Nel cod. più antico, quello di Innsbruck, è il cap. CXLVII. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


59 


dalla sua amante, poco dopo lo sciocco innamorato si fa togliere 
da lei anche il monile. Nuovi rimproveri della madre e solenne 
consegna dell’ultima parte dell’eredità, il mantello. Mentre Gio- 
nata dorme tutto trionfante sul suo mantello, la sua amica tira 
un lembo di questo, lo sottrae di sotto al dormiente, e scom¬ 
pare. Disperato, Gionata si pone in cammino, passa un fiume, 
l’acqua del quale è così bollente che i piedi gli si bruciano. Il 
giovane raccoglie un vaso di quell’acqua e prosegue il viaggio ; 
arriva a un albero, ne spicca un frutto e lo mangia. Improv¬ 
visamente egli diventa lebbroso. Allora egli spicca un altro 
frutto e lo mette da parte. Poco dopo trova un secondo fiume 
che ridà le carni ai suoi piedi abbruciati dall'acqua ardente del¬ 
l’altro; di questa nuova acqua miracolosa attinge un vaso pieno. 
Al di là del fiume s’innalza un altro albero « de cuius fructu 
« cepit et comedit et sicut per primum fructum infectus erat, 
« sic per secundum fructum a lepra est raedicatus. De ilio 
« fructu etiam attulit et secum portavit ». Per via due vian¬ 
danti raccontano che il re è ammalato di lebbra ; subito Gio¬ 
nata dice loro : — Io sono medico ! E infatti si fa condurre alla 
corte e guarisce il re. Intanto anche la sua innamorata si è 
ammalata di lebbra e richiede l’aiuto di quel medico miracoloso. 
Gionata accorre al suo letto, le fa confessare i peccati, si fa 
indicare il nascondiglio dove sono celati i tre oggetti rubati e 
poi, invece di darle dell’acqua del secondo fiume e dei frutti 
del secondo albero, le dà acqua del fiume ardente e un frutto 
dell’albero avvelenato e lascia la traditrice tra dolori atroci (t). 

La leggenda si ritrova in alcune noveltine siciliane, che hanno 
tutte questi dati fondamentali : un padre lascia in eredità ai suoi 
tre figli tre oggetti prodigiosi (la verga, lu firriolu e lu cornu 
’nfatatu) — uno dei figli si innamora della reginetta e si lascia 
sottrarre da lei successivamente tutti i tre oggetti — disperato, 


(1) Getta Rotti anoruin , herausgegeben »on Adalbert Keller, Stuttgart, 1*42, 
p. 190 e segg. Su questa leggenda [Jonathas] cfr. I. A. Herbert, Cat. of Ro¬ 
mance8 in thè depart. of mss. in thè British Mufteum, III (1910), p. 207. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



K. LEVI 


60 

si mettt! in via e trova il fico, i cui frutti fanno nascere le corna, 
e un altro fico, che (là frutti che le fanno scomparire. Forte di 
questo segreto, vende dei fichi alla reginetta ed ella diventa 
cornuta ; per toglierle le corna egli chiede ed ottiene la resti¬ 
tuzione della borsa, del corno e del ferraiuolo (i). Con pochis¬ 
sime varianti la storia dei tre giovani e delle tre fate si rac¬ 
conta ancora in Lorena (2) e in Germania (3). In Germania essa 
era viva anche anticamente, poiché fu raccolta nel 1509 in un 
libretto popolare intitolato Fortunatus , edito la prima volta 
per cura di J. Heybler, ad Augsburg (4). 

All’anno medesimo in cui fu ripubblicato, anche questa volta 
ad Augusta, nel 1530, il libro di Fortunatus, pare si debba 

i ■ ■ m ■ ■ • 

(1) G. Pithè, Fiabe, novelle e racconti jtopolari siciliani, Palermo, 1875, 
voi. I, p. 252 e segg. [n. XXVIII] ; Lacra Gokzekbach, Sicilianische Mar - 
chen, ecc., Leipzig, 1870, nn. XXX e XXXI. 

(2) E. CosquiN, Contee populaires lorrains, in Romania, V, 1876, p. 361, 
n. XI, « La bouree, le sifflet et le chappeau ». Tre fratelli erano di guardia 
in un bosco; l’uno era sergente, l’altro caporale, il terzo appuntato. Una 
vecchia regala all'appuntato una borsa che non si vuota mai, al caporale un 
fischietto, al sergente un cappello fatato. L’appuntato giuoca alle carte con 
una principessa e perde un dopo l’altro i tre oggetti, allora la vecchia gli dà 
delle frutta che fanno spuntare le corna e dell'acqua che le fa scomparire. 
Egli va dalla principessa, ottiene la confessione delle truffe e la lascia con 
un corno sulla fronte. 

(3) Gkimm, III, 202. Si vedano i numerosi riscontri additati da R. Koehler 
nelle note alle novelle XXX e XXXI della collezione Gonzenbach. 

(4) Cfr. J. C. Brcnkt, Manuel du libraire s , TI, col. 1351; T. Graesse, 
Trésor de livree rare», II, 619. Il Brunet e il Graesse citano anche una tra¬ 
duzione francese intitolata: Histoire comique ou tee aventures de Fortunatus, 
Lione, 1615, ed una italiana ed. a Napoli, 1676. Ecco la trama del bizzarro 
romanzo: Fortunatus lascia ai figli Ampedo e Andalosia una borea e un cap¬ 
pello fatati ; ma Andalosia se li lascia rubare da Agrippina, figlia del re d’Inghil¬ 
terra. Poi trova un albero i cui frutti fanno spuntare delle corna e un albero 
con delle frutta che fanno scomparire le corna. Con un paniere delle due 
specie di frutti, va a Londra, vende alla principessa le frutta che fanno cre¬ 
scere le coma, si propone di guarirla di quella malattia e cosi ne ottiene la 
borsa e il cappello e poi la induce a ritirarsi in un convento. — Fortunatus 
è già stato ravvicinato all’/sforwi dei tre giovani da T. Graesse, Trésor de 
livree raree, III, 302. Intorno a questa leggenda, cfr. Béla Lazar, Ueber 
das Fortunatus-Murchen, Leipzig, 1897. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTASI LEGGENDABI ITALIANI 


61 


pure ascrivere la prima edizione del VIstoria dei Ire giocani (1). 
Ma probabilmente il cantare è più antico di qualche decennio, 
perchè nella scorretta versificazione, nei lazzi e nelle fre¬ 
quenti buffonerie si rivela ispirato all’arte dozzinale dei can¬ 
tastorie del Trecento e del Quattrocento. E poi l’abito del me¬ 
dico, che Biagio prende a prestito prima di andare al capezzale 
della principessa (cant. 2°, ott. XIX, 5; XXII, 2) è quello cosi 
caratteristico dei « maestri » del medio evo, scarlatto coi lembi 
orlati di vaio. Una descrizione press’ a poco uguale si ritrova 
nella Regina d’Oriente, cant. I, ott. XXIII, vv. 7-8 e nelle no¬ 
velle del Sacchetti (2). In una lettera al Boccaccio ( Senili , V, 3) 
il Petrarca impreca contro l’indegno sfoggio di vestimenta vistose, 
che andavan facendo i medici del suo tempo: « la porpora scre¬ 
ziata a diversi colori, fulgori di anella, dorati sproni ». Nelle 
pitture del Trecento e del Rinascimento il medico si riconosce 
subito con grande facilità appunto per la « foggia » dell’abito e 
per il lusso particolare delle stoffe e delle pelliccie. 

L’antichità della storia dei Tre giovani è attestata inoltre 
dal fatto che molti passi di essa presentano una gi*ande somi¬ 
glianza col cantare di Liombimno, del quale s’è determinata 
con certezza la data (1380). Purtroppo sono ancora assai incerte 
la provenienza e la data della raccolta dei Gesta Romanoi'um 
e perciò non è possibile trarre da essa alcun aiuto nello studio 
d éiV Istoria dei tre giovani. Il manoscritto più autico dei Gesta 


(1) Ristorili di tre giovani disperati e di tre fate, s. n. t. n. a. (circa 1530); 
cfr. Brcnet, Manuel, ITI, 221 ; Passano, I noveTl. italiani in verso, p. 64. 
Un’altra edizione comparve a Firenze nel 1567 (cfr. G. Milchsack, Due farse 
del sec. XVI riprodotta sulle antiche stampe con la descrizione ragionata 
del voi. miscellaneo della biblioteca di Wolfenbiittel contenente Poemetti 
popolari italiani, con aggiunte di A. D’Ancona, Bologna, 1882, p. 154): una 
terza pure a Firenze nel 1570 (cfr. G. Milchsack, Op. cit., p. 284). Altre edi¬ 
zioni popolari si fecero nel secolo XVII e nel XVIII ; l’ultima che io conosco 
è del 1823. 

(2) Cfr. A. Corsini, Il costume del medico nelle pitture fiorentine del Ri- 
nascimento, Firenze, 1912. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



62 


R. LEVI 


Romanoi'um, quello di lnnsbruck, reca la data : 1342. Gli altri, 
e sono assai più di un centinaio, appartengono al secolo XIV 
e al XV. 

Sebbene tutte le stampe siano fiorentine o toscane, dell’ori- 
• gine toscana del cantare farebbero dubitare le numerose forme 
e rime settentrionali (1). Ma in questa letteratura popolare, 
randagia per carattere e per necessità, può darsi che quelle 
tracce dialettali si debbano, piuttosto che all’autore, a succes¬ 
sivi rimaneggiamenti di cantastorie non toscani. 

IX. 

La donna del Vergiù. 

La Chaste laine de Vergi è uno dei poemi più squisiti e più 
delicati della poesia del medio evo. Rapidamente, nel breve giro 
di soli 958 ottosillabi a rima baciata, l’anonimo trovèro ha sa¬ 
puto esporre la tragica storia d’amore e, quasi in iscorcio, ri¬ 
trarre il profilo sicuro e tagliente dei suoi personaggi. In Bor¬ 
gogna sorgevano l'uno accanto all’altro due castelli: quello di 
Vergi (oggi Vergy, nel comune di Ruelle, dip. della Costa d’oro) 
e il castello dei duchi di Borgogna, Argilly, pure nella Costa 
d’oro. Nel castello di Vergi abitava una fanciulla, nipote del 
duca di Borgogna, la quale era innamorata d’un cavaliere prode 
ed ardito. Ma ella era maritata e doveva celare con ogni cura 
il suo cuore e il suo afletto. Per mantenere il segreto, aveva 
pensato ad un’astuzia sottile: quando ella era sola e il cavaliere 
poteva liberamente entrare nel verziere e nel castello, ella la¬ 
sciava libero dal guinzaglio un cagnolino; da un cantuccio del 
verziere, donde spiava l’atteso momento, il cavaliere vedeva il 
cane « par le vergier aler » e accorreva nella camera di lei. 

(1) Cfr. tote, tavole, XXVIII, 5 — zambra, camera, XXXV, 7; II, XIV', 1 
— audacia, sazia, LX1I, 5, eco. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


63 


Ma nel frattempo si incapriccia del bel cavaliere anche la du¬ 
chessa e un giorno ella gli dice a chiare parole il suo amore. 
Ma egli risponde: 

91 ... de cele amor Dieus me g&rt 

qu’a moi n’a vous tort cele part 
ou la honte mon seignor gise, 
qu'a nul fuer ne a nule guise 
n’enprendroie tei meprison 
cornine de fere trahison 
si vilaine et si desloial 
98 vers mon droit seignor naturai. 

Esasperata da questo diniego, la duchessa giura di vendicarsi 
e si duole col duca d’esser stata oltraggiata dal cavaliere. Per 
discolparsi di fronte al duca, il cavaliere è costretto a rivelare 
il segreto del suo amore. Dopo una lunga lotta angosciosa, dopo 
mille dubbi tormentosi, s’egli dovesse partire in silenzio senza 
rivedere mai più la sua donna, o — pur di potersi trattenere 
accanto a lei — dovesse invece infrangere il giuramento e il 
segreto, alla fine, piangendo, egli si decide alla gran rivelazione. 
« Piangendo gli ha detto: — Signore, ebbene io vi dirò, io amo 
« vostra nipote di Vergi, ed ella me, quanto più è possibile 
« amare » (341-3). Ma il duca non gli credo, perchè nessuno fi¬ 
nora s’era accorto di quel misterioso legame, e vuole qualche 
particolare del segreto, che egli ritiene un’invenzione del cava¬ 
liere. Questi gli racconta du petit chien la maniere e una notte 
conduce l’incredulo signore nel giardino perch’egli veda coi 
propri occhi e se ne convinca. Appena la bellissima dama scorge 
tra le piante appressarsi il cavaliere, subito accorre, gli getta 
al collo le belle braccia, e cento e cento volte lo bacia senza 
una sola parola. Ed egli risponde con abbracci agli abbracci, 
con baci ai baci e dice: Mia signora! Mia amica! Mio cuore! 
Mia amorosa! Mia speranza! 

400 De la chambre vers lui sailli, 
et de ses biaus braz l’aeole 



Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



(>i 


E. LIVI 


et plus de cent fois le besa 
ainz que feist longue parole. 

Et cil la rebese et acole 
et li dist: — Ma dame, tn'amie, 
in’amor, mon cuer, ma dru*?rie, 
ra’esperance et tout qu&nques j’aim — 

Eie rediat : — Mon douz seignor, 
mes douz amis, ma donce amor, 
onques puis ne fu jor ne eure 
que ne m’anuiast la demeure; 
me ore de riens ne me dueil 
car j’ai o moi ce que je vueil, 
quant ai eates sains et haitiez, 

418 et li tres bien venuz soiez! — 

Per tutta la notte dura il colloquio d'amore; alle prime luci 
dell’alba il duca, che è sempre nascosto nel giardino, vede ap¬ 
parire la dama di Vergi sull’uscio, accanto all'amico suo, e dargli 
baci e baci rendergli e sospirare e piangere amaramente. E 
quando alla fine il cavaliere si spicca da lei, ella lo segue an¬ 
cora, nella via, coi suoi begli occhi, lontano lontano: 

472 Li chevaliers en tele maniere 
s’en part et la dame l’uis dot; 
mes tant comme veoir le pot, 
le convoia de ses biaus ieus, 

476 quant’ele ne pot fere mieus. 

Il duca ridona la sua fiducia e il suo affetto al cavaliere e 
una sera, durante un pranzo, lo colma di tante gentilezze e ca¬ 
rezze che la duchessa, sdegnata, finge di sentirsi male ed esce 
dalla sala del convito per andare a sfogare sulle coltri del letto 
la sua rabbia e il dispetto. Il duca la raggiunge e le rivolge 
mille parole affettuose senza riuscire mai a trarla dalla sua pro¬ 
fonda disperazione. Durante tutta la notte il povero marito, che 
ama veramente la duchessa, rinnova invano i suoi tentativi. La 
scaltra douna esaspera lo sposo con la sua glaciale durezza, poi, 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 


1 



















.Ili .v/.T 


.**i y. 


Digitized by 


.t »'V>\ ,\» \.nO 


I •! li 

• Vi» i 1 


l % 


••• 


• l 


P - 


• » • • • 


• * I . 


% • 


f* • 


k * 


•» ; i / 


i * 


• . !•* 


». • 


uii)Ha7 jhu a/vjou a.u.ìu auwtdcu a.1 

. • . •» 

ortQo^-t.ni ii> ijjlU., otu.iyj uail^IjaiD ìu-.ò*jI< 

.ili "> jjiiuiu vnimiL» 

i 

! »»i uijaii »y a |ftl, Si» 7IX Jvb u*>vtf.; 


• ••* 


•i 


• «• 


• -i 


. « . 


li 


* v 


• m 


. ìt 

« «« 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 







Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


65 


a tratti, cerca di commuoverlo col suo pianto dirotto ; insomma 
con tutte le arti innumerevoli di che è ricco il cuore femminile 
riesce finalmente a strappargli il segreto della dama di Vergi. 

Il giorno di Pentecoste nel castello di Argilly v’era grande 
adunata di cavalieri e di dame e tra l’altre v’era pure la ca¬ 
stellana di Vergi. Appena la duchessa la vide, il sangue le diede 
un tuffo: 

689 Et quant la duchoise la vit, 
tantost toz li sana li freinist. 

Tolte le tavole, la duchessa condusse tutte le signore nelle 
sue stanze perchè si acconciassero per le danze, che allora si 
sarebbero cominciate ; e nella conversazione non potè trattenersi 
dal lanciare qualche frizzo alla sua nemica e un’allusione vil¬ 
lana al segreto di lei. E poi tutte escono per recarsi alle danze. 

Rimanè sola la castellana, col cuore in tumulto per quelle pa¬ 
role che ha udito. Ella si lascia cadere sul letto e chiede a Dio 
perchè il suo amico, al qualè tutto ha dato, anima e corpo, e 
che è tutto il suo mondo, la sua ricchezza e la sua gioia, perchè 
egli l’abbia tradita cosi. Ora l’amore è scomparso, il tradimento 
l’ha ucciso: a che vivere ancora? Ed ella prega Dio che le tolga 
la vita, che le è ormai inutile e insopportabile. A queste parole 
il cuore le vien meno, le guancie si fanno pallide : ed ella giace 
in mezzo al letto, rigida e bianca come fosse morbi: 

835 A eest mot de sez braz s’estraint, 
li cuers li fault, li vis li taint; 
angoisseusenient s’est pasmée 
et gist pale et descolorée 

839 en mi le lit, morte sanz vie. 

Il cavaliere e il duca si meravigliano di non vedere tra le 
danzatrici la bellissima dama; il duca crede ch’ella si sia appar¬ 
tata coll’intenzione di parlare al cavaliere e perciò ordina a 
questo di andarla a ricercare. Egli la trova stesa sul letto, im¬ 
mobile e pallida: la bacia e sente che le labbra sono fredde. 

Giornale storica — Sappi. n # 16 . 6 


% 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



66 


K. LEVI 


— Che cosa è questo? Oimè, morta è l’amica mia! — esclama, 
e presa una spada, si trafigge e si getta accanto al cadavere 
della sua fanciulla. Quando il duca sopraggiunge, trova i due 
amanti immersi, l’uno accanto all'altro, nel sonno eterno. Non 
dice una sillaba; trae, silenzioso, dalla ferita la spada sangui¬ 
nante e con essa si reca in mezzo alla schiera delle danzatrici 
e spicca il capo della duchessa. Da quel giorno nessuno ha mai 
più visto il duca sorridere ; egli si crociò, andò oltremare e non 
ne ritornò più (t): 

939 Mes de l’aventure ot tele ire 
c’onques puis ne l’oi on rire; 
errant se croisa d’outre mer, 
ou il ala sanz retorner, 

943 si il devint ilneques Templiers. 

Nonostante l’ingenuità di certi tratti e di certi accorgimenti 
dell’antico troverò, anzi forse per virtù di essa, questo poemetto 
apparve ed appare un vero capolavoro ed ebbe attraverso i se¬ 
coli una fama sempre verde e viva (2). Non vi ò, si può dire, 
testo antico che non citi, accanto ad Isotta e a Tristano, il nome 
del cavaliere e della castellana di Vergi. Negli avori delle cas¬ 
sette nuziali, delle scatolette da profumo, negli affreschi dei pa¬ 
lazzi magnatizi, nelle miniature dei libri, dovunque, uomini e 
donne bramavano sempre vedere rappresentati l’effigie della ca- 


(1) Mi valgo dell’ediz. curata da G. Raynaud, Lo chastelaine de Vergi, in 
Romania, voi. XXI (1892), pp. 145-193, e del volume dei classici francesi 
del Medioevo, edito dal medesimo Raynaud, La chastelaine de Vergi, poème 
du XIII• siede, Paris, 1910. 

(2) Dna bella analisi psicologica dei personaggi ci ha dato W. SOderhjelm, 
La noui-eUe frangcùse au XV* siècle, Paris, 1910, p. 6 e segg. Per quanto 
riguarda la fortuna della Castellana di Vergi debbo rinviare alle poche ma 
dense pagine del Raynaud (nella Romania, XXI, p. 155 e segg.) e a un molto 
infelice libercolo di E. Lorenz, Die KasteUanin von Vergi in der Literatw 
Frankreichs, Itaiiens, der Neederl., Englands und Deutschlands mit einer 
deutschen Uebersetsung der altfr. Versnovelle, ecc., Halle a. S., 1909. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
—JJRBANA^ GHAM PAKjN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


67 


stellana infelice e gli episodi della tragica storia (1). Ed è vera¬ 
mente spiacevole che su un argomento, che ha fatto fremere 
tanti cuori e ha sbrigliato tante fantasie, la critica moderna, che 
è cosi curiosa, non abbia saputo ancora darci un buon lavoro 
complessivo ed esauriente. 

La tragica avventura d’amore e di morte ha forse un fondo sto¬ 
rico. La castellana di Vergi è detta nel poemetto nipote del duca 
di Borgogna: e infatti durante il secolo XIII vi furono due nipoti 
dei duchi di Borgogna, che ebbero il nome del castello maritale di 
Vergi, Isabella e Laura. Ragioni di cronologia escludono la prima 
e rendono evidente l’identificazione della seconda con l’eroina 
della nostra leggenda. Laura mori verso il 1282. Il duca deve 
essere Ugo IV, del quale in realtà i documenti dicono che si 
fece crociato e mori, di ritorno da un pellegrinaggio, nel 1272. 
Egli ebbe due mogli, Jolanda e Beatrice. Costei è la duchessa 
del poemetto. Sappiamo che dopo la morte di Ugo IV, Beatrice 
si ritirò dalla Corte e andò a vivere nel proprio castello di Isle- 
sur-Montréal, sempre perseguendo certe liti coi figli di primo 
letto del duca di Borgogna. E dopo la morte di lei, la sua fi¬ 
gliuola Isabella, moglie di Rodolfo d’Absburgo, pretese dal fra¬ 
tellastro Roberto di Borgogna la restituzione di un certo cofano 
contenente delle lettere intime molto importanti. Quel cofano 
era scomparso; esso forse conteneva l’unica traccia storica della 


(1) Una cassetta di avorio, che è al British Museuin di Londra e reca in¬ 
tagliati alcuni episodi della Chastelaine, fu illustrata da K. Bokixski, in Mo- 
natshefte fiir Kutud wissensch a fi , voi. II (1909), P. I, pp. 58-68. Altri avori, 
anch’essi di provenienza francese, pare, sono nel Museo del Bargello di Firenze 
nella collezione Carrand. Un avorio con una scena del poema è riprodotto 
dal Sl’chiek, Gexchichte der frani òttiche n Litteratur, p. 207. Secondo K. Bo- 
rinski, Dai NoveUenbild in der Cam Buonarroti, in Monatshefle fiir Kunst- 
wissenschafì, voi. I, P. II (1908), p. 906 e sgg., quel presunto ritratto di Raf¬ 
faello e della sua amante, che è nella casa Buonarroti e viene attribuito a 
Sebastiano del Piombo, sarebbe invece un’opera di pennello veneziano (Gior- 
gione-Tiziano) e rappresenterebbe gli amanti infelici della vecchia leggenda 
di Borgogna, rievocata nel Cinquecento, innanzi alla società cortigiana di 
Cremona e di Mantova, da Matteo Bandello nella nov. IV, 5. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



68 


I. LEVI 


tragedia che insanguinò la corte e la vita di Beatrice di Bor¬ 
gogna. La sanguinosa avventura, se i personaggi del poema sono 
proprio quelli che ora ho indicati, dovette compiersi fra il 1267 
e il 1272; il poema è forse posteriore di un decennio (1282-1288). 
Il Raynaud dice che la sparizione del misterioso cofano richiesto 
da Isabella d'Absburgo costituisce una perdita irreparabile per 
lo studio della leggenda (1). Per quanto suggestiva e sorridente 
sia l’idea di quei documenti rivelatori, io credo che, se pure 
essi per una fortunata combinazione potessero ritrovarsi, non 
recherebbero alcuna luce sul poema, perchè il nucleo della leg¬ 
genda è mitico e fantastico, e non già storico. La storia deve 
aver prestato alla poesia qualche nome, qualche particolare (per 
esempio, il crociarsi che fa Ugo di Borgogna dietro Luigi IX) 
e forse qualche spunto; nuH’altro. Lo svolgimento dell’avventura 
è fantastico ed è simile in tutto a quello delle leggende che ab¬ 
biamo lette nei lais di Lanval e di Graelent e nei cantari 
italiani che ne derivano, Bel Gherardino, Liomlrt'uno e Pul¬ 
zella Gaia. Le lusinghe della duchessa verso il bel cavaliere sono 
pur sempre gli allettamenti della Regina rispetto a Galvano nella 
Pulzella Gaia , di fronte a Lanval nel lai di Maria di Francia, 
a Graelent nel lai anonimo; e la sdegnosa ripulsa dell'amante 
della castellana è una ripetizione evidente del contegno nobile 
e austero di Galvano, di Lanval e di Graelent. L'amore che vive 
nel segreto e viene ucciso dalla rivelazione dei maligni ciarlieri 
è un motivo dei più comuni della poesia leggendaria; per aver 
infranto il segreto Bel Gherardino perde l'amore della Fata 
Bianca, Galvano quello della Pulzella Gaia. Parthenopeus, nel 
romanzo francese omonimo, con una lampada illumina il viso 
della sua amica Mélior, che dorme; e la perde per sempre. 
Amore perdette in simile modo Psiche (2). Storico è dunque 
l'apparato esteriore della leggenda della Castellana di Vergi \ 


(1) Romania, XXI, 154. 

(2) Cfr. Axel Ahlstròm, Studier i den forne-frnnska lais-literaturen \ Aka- 
demisk-abh&ndlingUpsala, 1892. p. 70. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



1 CANTASI LEGGENDARI ITALIANI 


69 


ina gli elementi intimi della poesia sono umani ed eterni e nulla 
v'hanno a che fare la Francia e la Borgogna. È sempre la fiamma 
animatrice del mito biblico di Giuseppe e della moglie di Pu- 
tifarre e del mito classico di Amore e di Psiche, che arde e 
splende in questi miti medievali della sua luce tranquilla ed 
uguale. Insomma la leggenda della Castellana di Vergi , nono¬ 
stante l’apparato storico del sec. XIII, si ricollega evidentemente 
col tipo dei racconti mitici di origine assai più antica, che ha 
la sua più perfetta espressione nei lais di Lanval e di Graelent 
e nei testi paralleli italiani, i cantari di Gherardino , della Pul¬ 
zella Gaia e di Ltombruno. 

Il poemetto della Chastelaine de Vergi fu composto nel penul¬ 
timo decennio del secolo XIII da un trovèro che viveva in Bor¬ 
gogna, probabilmente alla corte dei duchi Ugo e Roberto. Ora, 
noi conosciamo molti trovèri borgognoni, ai quali potrebbe at¬ 
tribuirei il poemetto, ma, tra tutti, quello che per le sue rela¬ 
zioni con la Corte di Borgogna ha maggiori diritti sulla Chas¬ 
telaine , è Perrin d’Angicourt. Egli dedicò alcune canzoni a 
Enrico di Brabante genero del duca Ugo di Borgogna e accom¬ 
pagnò nella spedizione nel Regno di Napoli Carlo d’Angiò, sposo 
di Margherita, nipote di Ugo (1) e lasciò traccia di sè in nu¬ 
merose carte napoletane (2). Se egli fu veramente l’autore del 
delizioso poemetto, si spiegherebbe assai bene la .larga diffu¬ 
sione che ebbe nel secolo XIV in Italia la leggenda della dama 
del Verziere e la frequenza delle figurazioni plastiche del ce¬ 
lebre episodio nell’arte antica italiana. 

Nel Decanierone , alla fine della terza giornata il Boccaccio 
ci racconta (III, 10): 


(1) Cfr. E. Petit, Histoire des ducs de Bourgogne de la race Capétienne, 
1894, voi. V, pp. 119-125. 

(2) Cfr. G. Steffens, Die Lieder des Troveors Perrin mn Angicourt, Halle, 
1905; G. Bertoni, Di un poeta francese in Italia alla corte di Carlo d'Angiò 
(Perrin d'Angicourt), Catania, 1913. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



70 


E. LEVI 


Dioneo e la Fiammetta cominciarono a cantare di inesser Guiglielmo e 
della dama del Vergiù; Filomena e Fallitilo si diedono a giucare a scacchi. 

Gaston Paris (i) erode che il Boccaccio qui accenni a due dif¬ 
ferenti cantari , il cantare della donna del Vergili e il cantare 
di messer Guglielmo, cioè di Guglielmo Guardastagno (Dee., IV, 9). 
Ma non c'è bisogno di dire che il cantare di Guglielmo Guar¬ 
dastagno non è inai esistito e che « messer Guglielmo » è il 
nome che il cantare italiano prestò al leggendario amante della 
castellana di Vergi. 

E curiosa la forma Vergivi, assunta nel Decamerone dall'origi¬ 
nario Vergy borgognone. Tutti gli italiani del Trecento dicevano 
e scrivevano veramente Vergiti, come il Boccaccio: « chomincia 
* la storia de la donna del rergu (2) et di messer Ghuglielmo, 
« piacievolissima choxa » dice il titolo messo in fronte al can¬ 
tare, nel codice riceardiano (3); e il codice moreniano (4): « qui 
« inchomincia la dama del verzù ». Anche nel corso del cantare 
verzù, o toscanamente cerzia? è la forma costante di Vergy 
(ott. V, 3; X, 8): 

e in istante 

al verzue giva e la cùcciola avante. 

Una spiegazione, che a prima vista parrebbe plausibile, di 
quella forma bizzarra è che Yu dei nostri testi sia frutto d’una 
interpretazione inesatta dell' y dei manoscritti francesi. Se cosi 
è, lo svolgimento e la diffusione della leggenda dovrebbero im¬ 
maginarsi avvenuti solo per via di libri e di scritture e biso¬ 
gnerebbe escludere ogni influenza della recitazione e dei rac¬ 
conti orali, perchè l’udire la vera pronuncia da bocca francese 
avrebbe presto rettificato l’errore di lettura commesso dai co- 


fi) Romania, Vili, 371. 

(2) Da leggere : ver giù. 

(3) Riccard. 2733, c. 112 a. 

(4) Cod. Bigazzi 213 nella Biblioteca Moreniana (appart. alla provincia di 
Firenze), c. 20 b. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI 


71 


pisti. Questa esclusione mi sembra difficile ad ammettersi in un 
tempo in cui l’Italia era come una gran caserma di soldati e di 
cavalieri guasconi, brettoni, borgognoni e francesi, e il più vasto 
regno della penisola era signoreggiato dalla dinastia Angioina. 
Per evitare questa difficoltà occorre allora supporre piuttosto che 
Yu di Vergili sia non una rappresentazione grafica inesatta, ma 
un rozzo tentativo di riprodurre in bocca toscana i suoni così 
oscillanti e diffìcili dell 'i e dell ’u e dell’intermedio u francese. 

Alla tragica morte della dama del Verziere accenna un passo 
del Filogeo del veneziano Sabelo Michiel (1370): 


Perchè la morte, a noi sì studiosa, 

fesse vegnir la fama 

di fuora al mondo, di Tisbe amorosa 

e perchè afferrasse, tanto grama, 
la dama di Borgogna, 
che nel verzier tesseva la sua trama, 
non de’ però paura nè vergogna 
tener le umane voglie 
in tutto fuori della sua bisogna... 

Se ben si feo la neza del conte 
a sè stessa nimica, 
levando al mondo la polita fronte, 

non è che meraviglia chi notrica 
perchè, ove doglia ascende, 
angelico voler non s’affatica. 


La dama del Verziere è compresa tra le altre donne leggen¬ 
darie che Malagigi, per arte magica, istoria sulle pareti della sala 
della principessa Lucrezia, nel cantare trecentesco (1370-1380) 
della Sala di Malagigi : 

(ott. XXII) Medea, Lucrezia, quella vaga donna, 

la vigorosa dama del verzieri (1). 


(1) P. R.una, La Sala di Malagigi, Imola, 1871 (nozze Nissim-D’Ancona), 
p. 14. — Forse in luogo di righorosa (come leggono veramente i due codd. 
riccard. 1091, c. 132 e 2816, c. 121) si dovrà porre rigorosa. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
_URBANA-CHAMPAIGN 



72 


K. LETI 


Tra gli amanti celebri enumerati nel Pome del Bel Fioretto 
di Domenico da Prato sono pure messer Guglielmo e l’eroina 
del nostro cantare (1): 

(c. Ili, ott. 19) Ancor sì vede alla mutata gelsa 

Piranto e Tisbe ; al lato ha 1 cavalieri 
Messer Guglielmo, la cui fama è excelsa 
insieme colla dama del Verzieri, 
e Pagolo e Francesca... 

Lo stesso messer Domenico da Prato si compiace di citare 
un'altra volta ancora nelle sue opere la tragica storia di Bor¬ 
gogna; in una Pistola d’amore, che racchiude una canzone 
« morale » e una canzonetta da ballo coi relativi commenti (2), 
una stanza della canzonetta dice: 

Meleagro et Atalante 
et Palimone e Emilia, 

Narcisse di sè amante 
con più di cento milia 
cantando tua vigilia, 
con Isotta et Tristano 

Messer Guiglielmo et la dea del Yerzore. 

Ben è felice il core — ecc. 

E nel commento che segue: — « D'Isotta e di Tristano et 
« della reina Ginevra et d'altri erranti cavalieri non ridico, 
« perchè a tutta gente è manifesto quanto fu il loro perfettis¬ 
simo amore. Et simile di messer Guiglielmo et del Ver¬ 
nieri la dama come per quella malvagia duchessa mori- 
<c rono ». Nella stanza da letto del secondo piano del Palazzo 


(1) Domenico da Prato, Il Pome del Bel Fioretto, per cura di Pietro Pan¬ 
tani, Firenze, 1863, p. 51. 

(2) La Pistola del detto Domenico, ecc. fu pubblicata dal codice Lauren- 
ziano XLI, 40 da A. Wesselofski, in appendice al YIntrod. al Paradiso degli 
Alberti di Giov. Gherakdi da Prato, Bologna, 1886, voi. I, P. II, pp. 368-372. 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN ■ 



1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


73 


Davanzati, a Firenze, gli affreschi che ricoprono all’intorno le pa¬ 
reti, compiuti forse nel 1395 in occasione delle nozze di Tom¬ 
maso Davizzi con Catelana degli Alberti, rappresentano fedel- 
mente, passo passo, tutti gli episodi del Cantare della donna 
del Vergiti (1). Che queste pitture siano tratte proprio dalle 
ottave del cantare e non dal poemetto francese, lo prova la scena 
del giuoco degli scacchi, di cui non è traccia nel poemetto ed è 
invece cosi descritta nell’ott. XVII del Cantare: 

T T n giorno er’ito el Duca a suo diletto 
fuor della terra a un suo ricco palazzo, 
e la duchessa sanza ignun sospetto 
prese Riesser Guglielmo per lo brazzo 
e menósselo in zambra, a lato al letto, 
ragionandosi insieme con sollazzo. 

E per giuocar la donna e *1 cavaliere 
fece venir gli scacchi e lo scacchiere. 

Il pittore ha seguito il poeta del cantare anche nella rozza 
rappresentazione ch’egli ci ha dato della morte della castellana. 
Mentro nel poemetto francese la morte avviene improvvisamente, 
dopo quel monologo disperato, che fu definito una delle più ap¬ 
passionate rivelazioni di dolore di tutta la poesia del Medio Evo, 
nel cantare quel disperato struggimento e quel semplice atteg¬ 
giamento di infinita amarezza sono rozzamente contraffatti e tutti 
insudiciati dalla più scimunita retorica. Basti dire che mentre 
si lamenta del tradimento, la dama (ott. EIX): 


(1) Cfr. W. Bombi:, Un rotnan frangati dans un palaie florentin, nell» 
Gaiette dee beatuc-arts del luglio 1911 e poi, più ampiamente, nella « co¬ 
municazione > fatta all’ Istituto germanico per la storia dell’arte in Fi¬ 
renze, Die Nocelle der Kastellanin con Vergi in einer Freskenfolge des pa¬ 
lazzo Da vizzi-Da vatuat i su Floreiu, Berlin, 1912. Su queste pubblicazioni 
di W. Bombe e so gli affreschi del palazzo Davanzati si veda il mio articolo 
La castellana di Vergi, nella Bassegm bibliogr. della lett. ital., Pisa, 1913, 
voi. XXI, pp. 41-45. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



74 


K. LEVI 


nella man destra ignuda avea la spada 
e la cucciola nel sinistro braccio. 

Ebbene: anche negli affreschi del Palazzo Davanzati la mo¬ 
rente è rappresentata con una spada nella mano destra e col 
cane nella sinistra! Durante il Rinascimento il melanconico can¬ 
tare cadde in dimenticanza; solo iu Toscana, e specialmente a 
Pisa, se ne sfogliava ancora qualche manoscritto. Quando a Ca¬ 
salmaggiore, al principio del ’500, davanti alle dame e ai cava¬ 
lieri della corte gonzaghesca « uno gentiluomo borgognone chia- 
« mato Edimondo Orflec » prese a raccontare la vecchia storia 
tragica, essa parve cosa nuovissima e tutti riempi « di stupore 
« e di pietà », tanto da strappare le lagrime. E il Bandello, che era 
tra gli ascoltatori, perchè nulla « dalla memoria gli uscisse * 
volle subito farsi raccontare da quel borgognone un’altra volta 
la vecchia novella e ne « annotò » le parti, che, appena giunto 
a Milano, poi trascrisse per disteso (1). Cosi almeno ci racconta 
il Bandello; ma dubito che qui il buon frate lombardo non ci 
voglia vendere del fumo o che almeno non gliel’abbia venduto 
queU’Edimondo Orflec borgognone, perchè tutta la novella, an¬ 
ziché rifatta su racconti orali e frammenti ed appunti, non è altro 
che una riduzione della nov. 70 della settima giornata del- 
YHeptamèron di Margherita di Navarra, la quale alla sua volta 
segue passo passo il poemetto « en vieil langaige » (2). La sola 


(1) E la nov. IV, 5 del Novelliere, nell’ediz. di G. Brognoligo, nella collez. 
degli Scrittori (VItalia, Bari, 1912, voi. V, pp. 117-147. 

(2) E. Lorknz, Op. cit., pp. 68-76, sostiene che la novella del Bandello sia 
l’originale e quella di Margherita di Navarra la traduzione. L ’Heptenncron 
fu pubblicato nel 1558; la nov. del Bandello soltanto nel 1578, nella quarta 
parte del novelliere, ed. a Lione presso Alessandro Marsili. Con una robusta e 
serrata dissertazione A. L. Stiekel, Die Chastelaine de ìergy bei Marya- 
rete roti Navarra und bei Matteo Bandello, nella Zeitschnft fiir fratieòsitche 
Spraehe und Litteratur, XXXVI (1910), pp. 103-115, ha dimostrato che 
l'assunto del Lorenz è compiutamente errato e che la novella del vescovo di 
Agen è un vero e proprio plagio di quello della regina Margherita. Quanto 
al racconto tenuto a Casalmaggiore nel 1518 da quel borgognone Edimondo 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 




I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


75 


novità del Bandello è il nome del cavaliere amante della castel¬ 
lana, che non è più « inesser Guglielmo », come afferma il Boc¬ 
caccio con la scorta del cantare della Donna del Vergili , ma 
« Carlo Valdrio ». La lungaggine della novella del Bandello è 
uggiosa e irritante; la trivialità di alcuni tratti ci colpisce come 
un’offesa. Tra le grosse mani di quell’uomo del Cinquecento la 
leggenda antica si sfoglia come un povero fiore delicato e av¬ 
vizzito (1). E non v’è cosa al mondo così tragica e triste come 
il morire d'una grande poesia. 

Il cantare trecentesco della Donna del Vergiti si legge in due 
manoscritti pisani della fine del Quattrocento (2) e dall’ uno di 
essi fu pubblicato nel 1861 da Salvatore Bongi, ma in un modo 
così arbitrario e ghiribizzoso da rendere irriconoscibile il testo 
primitivo. Le sciagure cominciarono persino dal titolo; non 
avendo bene decifrato il manoscritto, o non conoscendo il poe¬ 
metto francese originario, il Bongi mutò la Danna del Vergiti 


Horflec, lo Stiefel propende a credere che sia anch’esso un’invenzione del 
Bandello, perchè se in realtà egli avesse conosciuto così anticamente la bel¬ 
lissima novella, l'avrebbe compresa nei primi tre volumi delle Novelle, usciti 
nel 1554, e non avrebbe atteso il quarto. In ogni modo, anche ammettendo 
la verità storica di quei colloqui di Casalmaggiore, bisogna pensare che poi 
il Bandello abbia lasciati da parte i ricordi e gli appunti presi durante di 
essi, per attenersi senz’altro al libro della regina di Navarra. — Il diritto e 
lucido ragionamento dello Stiefel pone fuori di discussione l’ipotesi del Lorenz, 
che fu sostenuta anche tra noi, con qualche buon argomento, da P. Toldo, 
Contributo allo studio della novella francese del XV e XVI secolo, Roma, 
1895, p. 63 e segg. 

(1) Sulla fortuna della leggenda nella letteratura drammatica e nella no¬ 
vella dal Seicento al Romanticismo può servire qualche pagina del libro del 
Lorenz. Ma il lavoro andrebbe in gran parte rifatto. 

(2) 1) Codice Riccard. 2733, scritto da Fruosino di Ludovico di Cece da 
Yerazzano nei mesi di luglio e di agosto del 1481, a Pisa, mentre egli era 
castellano del Palazzotto. — 2) Cod. Morcniano-Bigazzi 213; è descritto dal 
D’Ancona, il quale lo studiò nel 1870, quando esso ancora era proprietà del 
prete Stefano Monini, priore dei Bagni di S. Giuliano, nell’articolo: La vi¬ 
sione di Ven us, antico poemetto popolare, nel Giornale di filologia romanza, 
1878, voi. I, p. Ili e segg. 


t 



Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



76 


K. LIVI 


nella Donna del Verziere ; e poi per restituire, com'egli dice, 
« il verso, il senso, la rima », delle settanta ottave del cantare, 
quindici ne rifece di pianta (1). 


(1) La Moria della dotata del Verziere e di mescer Guglielmo tratta da un 
codice riceardiano del sec. XV, Lucca, per B. Canovetti, 1861 (8®, pp. 32). 
Per dare un’idea delle sconciature dell’ediz. Bonjfi, ne riferirò qualche ottava, 
ponendo a fronte il testo com’io l’ho ricostruito dai niss.: 


Fiore di leggende: 

a 

Nulla si bella sita era, nè più, 
allora nè oristiana o saracina 
e nome avea la donna del Vergiù, 
ohe più splendea ohe stella mattutina. 
RI padre suo nobil barone fu, 
sua madre era figliuola di regina ; 
e quando essi del secol trapasserò 
si gli lasciaro un ricco tenitóre. 

H 

11 palazzo dove ella dimorava 
avea dintorno un nobile vergiero, 
ed una cucciolina, che ’l guardava, 
per me* la porta stava in sul sentiero ; 
quando messer Guglielmo v’arrivava, 
ed ella conosceva il cavaliere, 
sed esso ave' compagna*», ella lativa 
tanto che del giardin e* si partiva. 

15 

Ella ohe ha mosso in lui ogni sua speme 
e cielato l'amore oltra misura, 
si che '1 disio d'amor nel core prieme, 
in gelosia ne vive ed in paura, 
e lagrime degli occhi il viso gieme. 
Presente quella nobil creatura, 
diceva: - Amor perchè m’hai cosi arso 
di costui, che d'amor m'è cosi scarso? — 

Partissi il cavalier doglioso e gramo 
veggendo la duohesa piena d'ira 
e quasi di pazzia menava ramo, 
si dolorosamente ne sospira ; * 
e di partirsi quindi gli era bramo. 

E la duchessa ta' parole spira 

che giammai non l’amò per tal follia; 

Usci di zambra ed andossene via. 


Tento del lìongi: 

5 

Donna si bella non si può vedere 
fra la gente cristiana o saracina 
e nome avea la donna del Verziere. 

Più risplendea che stella mattutina: 
il padre fu baron di gran potere, 
e la madre figliuola di regina, 
e quando essi dal secol trapasserò 
si gli lasciaro un ricoo tenitore. 

Il loco ove la donna dimorava 
avea d’intorno un nobile verziere 
ed una cucciolina che '1 guardava 
ohe bene conoscieva il cavaliere; 
quando Messer Guglielmo solo andava, 
gli giva innanzi e mostrava il sentiero, 
ma latrava s’egli era in compagnia, 
tanto che dal giardin non dipartia. 

15 

Certo ch'egli è de' cavalieri il fiore 
(dicea fra sè) di be' costumi ornato, 
e se in loco sì degno ho posto amore, 
per men grave de' aversi il mio peccato, 
non sa oome mostrar l'interno ardore 
e tener più noi può chiuso e celato, 
dicendo, amor, perchè m’hai così arso, 
di costui che d'amor m'è così scarso? 

55 

Partissi il cavalier molto dolente 
lasciando la duchessa ohe piangea 
e chiamava lui falso e sconoscente, 
ohe tanto oltraggio a sua beltà facea. 

E già tristi pensier nutriva in mente 
eh’in ira volto il folle amor avea 
e '1 nemico di Dio potè sì forte 
che trovò il modo di mandarlo a morte. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


77 


I critici della leggenda (i) sono concordi nel ritenere la 
Donna del Vergiti opera di Antonio Pucci. Ma per quale ragione 
si debba accrescere anche di questo poemetto il fardello, che è 
già assai pesante, del banditore fiorentino, io non vedo dav¬ 
vero. Certo l’autore della Donna del Vergiti era un cantastorie 
rozzo ed incolto, perchè la fattura del verso è assai sciatta e 
la poesia è senza finezza e senz’arte (2). Alcune forme dialet¬ 
tali (come verzù, zambra , brazzo ) parrebbero escludere una 
penna fiorentina e toscana e farebbero pensare piuttosto a un 
uomo d’oltre Appennino; ma la poesia leggendaria era ran- 


s» 

Toroesi el duca con sì caldo sangue 
per ira avea rosso la faooia e gli occhi. 
Per temenza la sua famiglia langue 
e que’ ohe non languivano eran soiocohi, 
e di lui non sarebbe uscito sangue 
ohi Pavese* tagliato tutto a rocchi. 

E sospirava come ferito orso 
Dello dubievol caso, ch’era occorso. 

41 

El cavalier di subito fu mosso 
con sei valletti gl su pelle scala 
oon un mante! di drappo bruno addosso, 
e lagrime degli ooohi in viso cala, 
la pelle gli parea cucita addosso ; 
e giunse al duca, ch’era suso in sala. 
Di questo il duca co 'la sua famiglia, 
vedendolo, ciascun si maraviglia. 

4 ? 

E, poi oh'ebbe la oucciola sentuta, 
si fò la damigella rivestire 
e poco stante a lui ne fu venuta, 
a que’ ch’a forza la dovea tradire. 

Ma non si pensava ella esser traduta 
da quegli in cui avea messo il suo disire 
e non pensando del tradir l’effetto 
e prese col suo drudo ogni diletto. 


sa 

Torcesi il Duca a sì triste ventura 
siccome l’angue ohe ’1 villan percosse 
la sua famiglia trema di paura 
come se il giorno del giudizio fosse. 
Avea la cera spaventata e scura 
e per Pira e ’l dolor le guance rosse 
e sospirava come ferito orso 
dello dubievole caso ch’era occorso. 

41 

El cavaliere a così triste avviso 
co’ suoi valletti andò dal suo signore; 
l’acerba doglia si leggea sul viso, 
s’era vestito di bruno oolore; 
e prima si vorrebbe essere ucciso 
ohe in tal modo passar per traditore; 
e giunse ov’è il signor oon la famiglia 
ohe veggendol così si meraviglia. 

47 

E poi ch’ebbe la oucciola sentuta 
si fe’ la damigella rivestire; 
e poco stante fe’ la sua venuta 
a que' oh’a forza la dovea tradire; 
e, lassa, non sapea ch’era veduta 
e che ella avea sì presto a morire; 
e non pensò del traditor l’effetto, 
che col drudo si prese ogni diletto. 


(1) Cfr. E. Lorenz, Die Kasteìlanin von V ergi dt., p. 33 e segg.;W. Bombe, 
Die Kasteìlanin von Vergi , p. 4. 

(2) Moltissime volte si ha nel cantare la dialefe, una volta (XVIII, 6) asso¬ 
nanza; il medesimo verso è ripetuto in due ottave differenti (X, 5 e XVIII, 2). 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



78 


E. LETI 


dagia e forse raccattò quei vezzi lombardi nelle sue peregrina¬ 
zioni per le piazze. 

È importante, per determinare l’origine della Donna del 
Vergiti , la citazione d’una tragica avventura d’amore racchiusa 
nel Tristano riccardiano, che si ha nell’ott. 58: 

E ginnc nella camera, tremando, 
siccome quella che di duol moriva 
e di messer Guglielmo lamentando, 
pregandone la Vergine Maria, 
siccom’egli l'er ita abbominando 
che lo conduca a far la morte ria, 

— « come conduce me, che con mia mano 
« morrò, come Belliciee (1) per Tristano »! 

Il Tristano (cap. XII) racconta infatti che Bellicies, figlia del 
re Ferramonte di Gaules, si uccise per l’amore, non corrisposto, 
di Tristano: 

Ma dappoi che Belicies seppe che Tristano s’era partito dalo reame di 
Gaules e andava per dimorare in Cornovaglia, incominciòe a dare il maggior 
pianto c’unqua mai fosse fatto per neuna damigiella, diciendo ella intra ssee 
istessa: — Dappoi che s’èe partito colui cu’io amava più che mee, e ora no 
lo veggio si come io solea fare, conosco e ssento che amore mi distringie in 
tale maniera che ora mai la vita poco puotc durare. E imperciòe ch’io n’abbo 
inteso che la morte è più dolorosa cosa c'altri possa sofferire; ma a me la 
morte torneràe in dolzore, dappoi che lo mio amore canpai da la morte. E 
perciòe io voglio morire con quella ispada, con la quale T[ristano] dovea es¬ 
sere morto. E allora si prese la damigiella la spada e ppuose lo pome in terra 
e la punta si si puose dirittamente per me’ lo cuore, e disse : — Dolcie mio 
amico Tristano, ogniuno sappia ched io m’uccido per lo tuo amore! — E in- 


(1) Il cod. Riccard. ha: Bell itti, e il Moreniano: Bellisse. Il Tristano aiuta 
anche a chiarire l’ott. LX, 2, dove il cod. Riccard. reca : « e achonciossi il 
chore per me la punta » e il Moren. « il suo cuor poggiò per me la punta ». 
Il Bombe suppone che me significhi mettere ; ma è evidente in questo passo la 
parafrasi del Trist « e la punta si si puose dirittamente per me’ lo cuore ». 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


79 


contanente si lasciòe cadere i-ssu la spada e fine morta incontanente. £ lo 
scudiere, dappoi che la vide morta, raontòe a cavallo... (1). 

11 ricordo così vivace di un racconto d’amore riferito da un 
testo del Duecento è di per se stesso un probabile indizio di an¬ 
tichità (2). Ma qualche altro dato cronologico più chiaro e più 
preciso si può desumere da altri passi del cantare. Il giullare 
ci dice che dagli eventi della corte di Borgogna (1270-80) non 
era ancora passato gran tempo (II, 1): 

E’ non è ancora gran tempo passato 
che di Borgogna avea la signoria 
un Duca, che Guernieri era chiamato. 

La storia della Dama del Vergiù dovrebbe essere, a quello 
che egli ci assicura (I, 3), recentissima: 

io vo’ la grazia tua addiinandare 
e dir per rima una storia novella. 

Ma queste espressioni sono convenzionali; e non possiamo at¬ 
tribuire ad esse molta importanza. Ben più utile è l’accenno, con¬ 


ti) Cfr. E. G. Parodi, 77 Tristano riccard., Bologna, 1891, pp. 27-28. 

(2) La tragica storia di Bellices è raccontata anche nella Tavola ritonda 
(cap. 16 e 17), la quale appartiene alla prima metà del secolo XIV. Dopo i 
bellissimi episodi del primo incontro di Bellices con Tristano, dell’improvvisa 
rivelazione dell’amore e della partenza di Tristano, segue la drammatica 
scena del suicidio della fanciulla : « Allo’ di presente prese una spada del suo 
« padre, epone lo pome in terra elapuntasipone diritto al cuore 
« suo, dicendo: — Cuore del corpo mio, Tristano! Amore e diletto mio! 0 
« isperanza e piacere dell’altra gente! E come m’avete abbandonata? 0 dolce 
« speranza mia, tu te ne sé andato, e io per voi non voglio più la vita ! — E 
« dette queste parole, si lascia cadere tutta libera in sulla punta della detta 
« spada, la quale la passòe oltre dalla altra parte... >. La Tavola ritonda, 
ed. cit., P. I, pp. 54-63. Nel Tristano francese in prosa l’eroina della tragica 
storia ha nome Belide o Beleyde; cfr. E. LOseth, Le roman enprose de 
Tristan, le roman de Palamède et la compilation de Rusticien de Pise, cit., 
pp. 18-19. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



80 


E. LEVI 


tenuto nell’ott. LXVIII, al passaggio del duca a Rodi per com¬ 
battervi gli infedeli, perchè si sa che Rodi cadde nelle inani 
dei cavalieri di S. Giovanni solo nel 1309; dunque abbiamo qui 
un termine sicuro « post quem ». Il termine ad quem può es¬ 
serci fornito dalla data del Decamerone. Infatti non è possibile 
che il cantare « di messer Guglielmo e della dama del Vergili * 
citato dal Boccaccio sia un’altra opera diversa dalla Donna del 
Vergili , perchè non si ha traccia d’altri componimenti del Tre¬ 
cento intorno a questa leggenda (1) e poi perchè il nome di 
« messer Guglielmo » appare un’invenzione schietta ed originale 
del cantastorie della Donna del Vergiti. In nessun’altra leggenda 
fuorché nel nostro poemetto l’amico della castellana porta il 
nome di Guglielmo reso celebre dalla citazione del Boccaccio. 
Insomma la Donna del Vergiù è opera d'uno di quei rozzi can¬ 
terini randagi, intorno ai quali si addensavano le folle e palpi¬ 
tava il vasto fremito del popolo italiano. Egli fu un grossolano 
poeta, ma un accorto conoscitore della vasta materia leggen¬ 
daria cara alla plebe. E si può essere certi che egli compose e 
intonò questo cantare prima del quinto decennio del Trecento. 


(1) Una novella in prosa francese fu composta alla fine del Trecento nella 
valle di Aosta. Essa si legge in un ms. che era dei Challand e poi dopo varie 
vicende fu acquistato dalla Bibliot. Nazion. di Parigi (Nouvelìes acquisitions 
fran^aises, 6639); e fu pubblicata, quando il cod. non aveva ancora varcate le 
Alpi, dal Barone di S. Pierre nell’op. Novelle e poesie francesi inedile o ra¬ 
rissime del sec. XIV, Firenze, Stab. Civelli, 1888, in-foglio. Dall’analisi che 
P. Meyer ne ha fatto nella Romania, XIX, 1890, pp. 340 e sgg., risulta che 
tra la novella valdostana e il cantare non esiste relazione alcuna. Mentre il 
cantare rispetta, pur non intendendolo, il cognome « Vergi * della castellana 
(Vergiù), il novelliere suppone che il nome de vergier derivi dal dono, fatto 
dal duca alla nipote, di un vero e proprio verziere. Il duca, dopo aver ucciso 
la moglie, si fa monaco. L’amante della castellana, che è anonimo nel poemetto 
francese e ha il nome di Guglielmo nel cantare, nella novella è chiamato Tri¬ 
stano: c ung nomine Trìstan son premier chevalier, quy tant estoit noble, 
« vaillant et plain de toute biaulté >. — Non credo che la novella sia mai 
stata conosciuta fuori dei confini della valle d’Aosta. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


81 


X. 

Gibello. 

Il cantare di Gibello si legge in una miscellanea toscana del 
Quattrocento, che reca sulla coperta la data: « Mccccviiii a 
di x febraro ». Ma il codice è posteriore, perchè contiene tra 
l'altro la Rotta di Ravenna dell’Altissimo (c. 50-53) datata: 1472, 
e altre scritture quattrocentine, come la novella della Figlia del 
re di Dacia e il libro di Fioravanle (t). L'argomento del can¬ 
tare è il seguente. Tarsiano, re di Bravisse, è un uomo di in¬ 
finiti pregiudizi. Egli crede che ogni donna che mette alla luce 
due gemelli, sia adultera e senz’altro la condanna al rogo. Ma 
ecco che una notte la stessa regina partorisce due bimbi. Per 
paura dell’inevitabile condanna, ella affida uno dei due gemelli 
ad una nutrice, lo fa avvolgere di un drappo dorato e ordina che 
sia gettato in mare. Ma giunta sulla spiaggia, la balia si impie¬ 
tosisce e invece di uccidere il bambino, lo regala ad alcuni 
mercanti che passano. I mercanti portano il bambino in dono 
ad Argogliosa, regina della città di Gienitrisse, ed Argogliosa, che 
dal drappo d'oro onde è ammantato comprende ch'egli è « di 
gran legnaggio » (XI), lo fa allevare con ogni cura, dandogli il 
nome di Gibello. 

Una volta, durante un torneo, Gibello, che aveva allora sedici 
anni, abbatte e fa prigioniero un cavaliere; questi, soffocato dal¬ 
l'ira, rinfaccia al prode giovinetto il mistero della sua nascita. 


(1) Bibl. I.aur., cod. Palat. CXIX, c. 157 « ; cfr. A. M. Bardisi, Cat. mas. 
tìibl. Laur., Suppl. ITT, 331-341. — Il cantare fu pubbl. da F. Selmi, GibeUo, 
novella inedita in ottava rima del buon secolo della lingua, Bologna, 1868 
(Scelta di curiosità letterarie, disp. XXXV). Questa edizione è deturpata da 
qualche errore di lettura del nis. e di interpretazione: agitore per reggitore 
(XXXI, 4); linguaggio per ligtiaggio (XI, 5); spuntoni tal gente per spun¬ 
toni tagliente (LVII, 2) e infine un buffo non vi passava lasciare per non vi 
lasciava passare (XXVI, 6). 

Giornale storico — Suppl. n» 1«. 8 


l 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



82 


K. LKVI 


(Ribollo si mette in via per ricercare la sua gesta recando 
come bandiera il drappo d’oro che aveva coperto le sue fascie 
(XXIV); sconfigge e rende suoi vassalli il Cavaliero Nero e poi 
il Conte Vermiglio e giunge nella città di Serpentina. Vedendo 
la bellezza del giovinetto, il duca di Serpentina, per paura che 
la moglie se ne innamori, lo fa gettare in carcere (XL). 

Intanto Tarsiano, re di Bravisse, decide di dar moglie al 
figliuolo e fa chiedere per mezzo di alcuni ambasciatori la mano 
di Argogliosa; ma ella che non pensa che al suo Gibello lontano, 
rifiuta. Ne nasce una guerra e Argogliosa è assediata nella sua 
città, Genitrisse (XLIV). 

Gibello apprende le sventure della sua protettrice, perchè il 
duca di Serpentina, che è vassallo del regno di Bravisse, ac¬ 
corre presso Tarsiano e partecipa all’impresa contro Genitrisse. 
La duchessa di Serpentina si innamora davvero del bellissimo 
prigioniero e, mentre il marito è alla guerra, lo libera. È inutile 
dire che Gibello subito vola al soccorso di Argogliosa, e con 
l’aiuto dei suoi amici, il cavaliere Nero e il conte Vermiglio, 
sconfigge l'esercito di Bravisse e uccide il duca di Serpentina. 
Dopo la vittoria, Gibello, che non si ritiene sciolto dalla pri¬ 
gionia della duchessa e vuol serbare fede alla parola data, in¬ 
curante del pianto della bella Argogliosa, ritorna a Serpentina 
(LXVI1I). 

Intanto il re Tarsiano bandisce uua festa e vi invita la duchessa. 
Ma ella è vedova e non può recarsi alla corte da sola; allora pensa 
di condurre con sè, come gentiluomo di compagnia, il leale 
Gibello. La regina di Bravisse, appena lo scorge, lo riconosce 
per il figlio suo, sia per i lineamenti del viso, sia per il pallio 
dorato; interroga la nutrice e ne ha la confessione die il bam¬ 
bino, destinato alla morte tanti anni prima, era stato risparmiato 
(LXXVII1). 

La notizia del riconoscimento si diffonde per la città e Tar¬ 
siano, furibondo, condanna a morte la moglie. Ma Gibello si 
arma in difesa di lei e tutti i baroni e anche il principe, suo 
fratello, si schierano accanto a lui ; e Tarsiano rimane abban- 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 


I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


83 


donato. Gibello si reca dal padre e lo convince dell' ingiustizia 
della sua legge e della condanna inflitta a sua madre (LXXXV). 
Intanto Argogliosa giunge a Bravisse con uno splendido corteo 
di cavalieri e sposa, tra la letizia generale, il suo bello e prode 
Gibello (LXXXVIII). 

La duchessa di Serpentina cade morta a terra, uccisa da 
Amore. 

Questo grazioso racconto è congegnato, non senza abilità, su 
due motivi fondamentali : 

1° l’amore di un cavaliere per una principessa potente o 
per una fata, contrastato dal destino attraverso a mille episodi 
avventurosi: è la stessa leggenda del Bel Qherardino e della 
Pulzella Gaia ; 

2° il pregiudizio di un re, che crede adultere le donne che 
dànno alla luce due gemelli. 

11 primo dei due motivi è quello del gruppo di leggende che 
mettono capo al lai di Lanval di Maria di Francia e al lai ano¬ 
nimo di Graelent; il secondo costituisce gran parte del lai di 
Fraime , del quale questa è la trama. Vivevano in Brettagna 
due cavalieri, amicissimi. Quando la moglie dell’uno dà alla luce 
due gemelli, la sposa dell'altro si mette a ridere e al banchetto 
del battesimo dichiara, con grande scandalo di tutti, che una 
donna che partorisce due bimbi deve aver conosciuto due uo¬ 
mini. Ma nello stesso anno ella mette alla luce due bimbe. Piena 
di vergogna, per celare l’obbrobrio, prende una delle bimbe, la 
avvolge in un prezioso drappo, che poc'anzi il marito le aveva 
recato in dono da Costantinopoli, le cinge il braccio con un 
bracciale d’oro o la affida a una nutrice perchè l'abbandoni di 
notte in un bosco. La nutrice depone la piccina tra i rami di 
un frassino, che sorge accanto a un chiostro e, dopo aver mor¬ 
morato alcune preci, scompare tra le piante. La suora sacre¬ 
stana del monastero al mattino raccoglie la bambina e la porta 
nel chiostro ; le monache dànno alla bambina il nome di 
Fruirne (frassino), per ricordo del luogo dove l’avevano tro¬ 
vata. Dopo moltissime avventure Fraisne diventa l’amante del 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



84 


E. LEVI 


signore di I)ol, Gurun, fugge dal convento e va a convivere nel 
castello di lui. Passa qualche anno, e il cavaliere brettone vo¬ 
lendo dare marito alla figliuola Coldre, pensa proprio a Gurun. 
L’umile Fraisne, soffocando i singhiozzi, prepara la casa, come 
la celestiale Griselda boccaccesca, dirige i preparativi delle nozze 
ed arriva persino ad abbandonare il suo unico tesoro, il drappo 
e il bracciale, nella stanza nuziale, per festeggiare l’arrivo della 
sposa. Ma la suocera di Gurun riconosce da quel drappo e da 
quel bracciale che la donna che ella disprezza quale ramante 
del fidanzato della sua figliuola, è proprio l'altra sua figlia ab¬ 
bandonata nel bosco ; e invece delle nozze tra Coldre e Gurun 
vuole siano stipulate quelle tra Gurun e la bella e angelica 
« Fraisne » (1). 

Tra rantichissimo lai brettone e il cantare italiano la paren¬ 
tela è assai stretta. Lo svolgimento del racconto è identico; sol¬ 
tanto vengono rovesciate naturalmente le parti, nella scena delle 
nozze, perchè mentre la dama brettone aveva avuto due figlie, 
i gemelli della regina di Bravisse sono due maschi. Le due so¬ 
relle, Coldre e Fraisne, aspirano alle nozze col principe Gurun; 
i due fratelli, Gibello e l’altro non nominato, si contendono per 
poco tempo il cuore e la mano della bellissima principessa Ar- 
gogliosa. 

Un particolare, che può sfuggire durante la lettura del canto 
di Gibello , merita di essere messo in evidenza: il drappo d’oro 
che è il segno di riconoscimento dell'eroe. Esso vien ricordato 
quasi a ogni passo, ma in tal modo che sembra che il poeta non 
si sia reso conto nè della sua origine, nè del suo ufficio, nè del 
suo destino in questa leggenda. Gibello viene « amantato in un 
bel drappo d’oro » (V) e le nutrici, elette da Argogliosa, subito 
pongon mano « a governarlo — e di quel drappo ad oro a 
dismantarlo » (XI). Quando parte alla ricerca della sua gesta, 


(1) Fraisne è il terzo dei XII Late di Maria di Francia. Mi valgo della 
ediz. di K. Warncke, Halle, 1900, pp. 54-74. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 


I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


85 


« Gibel elei drappo ad oro fece banda » (XXIV, 8), cioè — credo 
— bandiera, issandolo come stendardo sulla lancia;,infatti nel 
duello col duca di Serpentina (LXV): 

un sì gran colpo Gibel gli donòe 
morto l’abbatte sotto sua bandiera, 

e poi entrando come vincitore a Bravisse (LXXVI): 

sotto sua insegna il nobile Gibello 
per la città ogni di cavalcava. 

Di questa insegna, di cui « è amantato » (LXXVII), egli poi 
rende ragione alla madre; e ne segue il riconoscimento. Il 
drappo d'oro di Gibello è il pallio di Fraisne, che ella porta ac¬ 
canto a sè, nel bosco e nella reggia, e, quasi a simboleggiare la 
sua sublime e crudele rinuncia, poi abbandona sul letto nuziale 
del suo amante (v. 410-460). 

Il lai di Fraisne è uno dei più affascinanti per la accorata 
mestizia che lo circonfonde e la profonda ed umana semplicità 
degli affetti. Fin da tempi assai antichi ebbe traduzioni ed imi¬ 
tazioni in tutta l’Europa: in Inghilterra, nel grazioso Lay le 
Freme del principio del Trecento (1), in Francia nel romanzo 
di Galerent corate de Bretagne (2); in Italia ebbe un’eco nella 
novella tragica ed eroica che chiude il Decamerone, in Gri¬ 
selda (3). La superstizione che i gemelli siano frutto d’un adul¬ 


ti) Pubbl. tra le Aticient metrical romances, ed. by Henkv Weber, Edin¬ 
burgh, 1810, voi. I, pp. 357 e segg., poi da H. Varnhagen, in Anglia, III, 415; 
cfr. Zcpitza, Zum Lay le Freine, in Englische Studien, voi. X [1886], 
pp. 41-48. Purtroppo questo grazioso poemetto è frammentario. 

(2) Le roman de Galerent comte de Bretagne par le trouvère Rejìai’t 
p. p. Anatole Boucherie, Paris, 1888; cfr. A. Mussapia, Appunti sul Roman 
de Galerent, nella Romania, XVII, 439. 

(3) Cfr. L. Savorjni, La leggenda di Griselda, Teramo, 1901 ; A. De Gc- 
BERNATig, De Sacountala à Griselda, Roma, 1905; F. X. Wannekmachek, Die 
Griseìdis-Sage auf der lberischen Halbtnsel, Strassburg i. E., 1894; cfr. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



86 


K. LITI 


terio, la quale forma il dato iniziale del lai di Maria di Francia e 
del cantare di Gibello , fu pei* lungo tempo diffusa in mezzo al 
popolo e lo è ancora, in alcune regioni (1). Essa si ritrova in 
moltissime leggende medievali e in moltissimi racconti popolari; 
e fu con arditezza veramente mirabile e straordinaria portata 
sulle scene da Lope de Voga nella commedia Los porcele# de 
Murcia (2). Il motivo è sempre costante; una dama deride una 
mendicante che reca con sà due gemelli e dice che il parto ge¬ 
mino è indizio di adulterio. Poco dopo ella mette alla luce due, 
tre, quattro, persino sette figli, o addirittura, come in una leg¬ 
genda raccolta nella cronaca di Hermann Korner (1300), 364 figli, 
piccini come granelli, tam exiguos sicut polypos (3). 

Una notevole somiglianza col cantare di Gibello ha, tra tutte 
le innumerevoli versioni, quella della romanza castigliana di 
Espinolo (Il biancospino). Una regina di Francia pubblica una 
legge che la madre di due gemelli, come convinta di adulterio, 
debba essere senz’altro uccisa. Poco dopo ella stessa dà alla luce 
due bambini e per sottrarsi alla sua legge crudele, fa gettare 
l’uno dei gemelli nel mare, in una cassetta che contiene qualche 
ninnolo d’oro (= il drappo d’oro di Gibello ). La cassetta viene 
gettata su una spiaggia, in un cespuglio di biancospino, e viene 
raccolta da alcuni marinai, i quali ne traggono il piccino e lo 
portano al Sultano di Siria. Il bambino cresce prode e valoroso 


Stiefel, nel Literaturblatt fur german. unti roman. Philologie, XXI (1895), 
p. 415 e segg.; R. Schvstkr, Griseldis in der fratizòeischen Literatur, Tu- 
bingen, 1908. 

(1) Molte curiosissime testimonianze sono state raccolte da W. Hertz, Spiei¬ 
mo nnsbuch, Novéllen in Verseti aus dem XII und XIII Jahrh.*, Berlin, 
1912, p. 401 e segg. 

(2) Cfr. Lope de Vbga, Obras publieadas por la B. A endemia espano/a. 
voi. XI (Madrid, 1900), p. 543 e segg. Sono preziose le osservazioni prelimi¬ 
nari di M. Menéxdez y Pelavo, t ’b., p. oli e segg. 

(3) Cfr. R. KOhler, Anmerkungen zu Le Fraisne, nella 2* edizione del 
Warncke, p. lxxxvii e sgg. 


Digitized by Google 


t 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


87 


e viene adottato quale figlio del sovrano, come Gibello alla corte 
della principessa Argogliosa (1). 

La coincidenza di alcuni particolari della storia di Gibello e 
della storia spagnuola di Biancospino parrebbe indicare senza 
altro la conclusione di questa ricerca: la romanza spagnuola e 
il cantaro italiano riposano sopra un comune motivo della leg¬ 
genda, diffuso per via di tradizioni orali. Nel cantare italiano si 
avrebbe inoltre un’eco vivacissima del lai di Fraisne nel par¬ 
ticolare del pallio d'oro, che è il segno di riconoscimento tanto 
per Gibello quanto pel Frassino. Ma lo stesso autore del can¬ 
tare ci avverte che di una conclusione cosi semplice bisogna 
diffidare; in più luoghi egli accenna non già ad una tradizione 
orale, ma a una leggenda scritta come a fonte precisa del poe¬ 
metto. « Secondo la storia », dice una volta (XL, 1), e altrove: 
« nel libro m’informo » (LIX, 8). Che quel libro fosse francese 
mi pare si debba dedurre dai molti francesismi che sono disse¬ 
minati nel cantare, come bamaggio (LX, 1) e lanieri (a. fr. 
lainier = pigro), XXX, 5, ed anche dal nome della principessa 
buona, Argogliosa, che è uguale a quello dell’eroina del ro¬ 
manzo di Blancandin et d’Orgueilleuse e a quello della donna 
amata dal cavaliere Orgulleus de la Roche nel romanzo del 
G't'al di Cristiano di Troyes. E in realtà moltissimi romanzi 
medievali francesi svolgono il motivo del figlio abbandonato per 
la legge che condanna come adultera la madre di due gemelli. 
Nel poema Le chevalier au Cygne (2) Beatrice, moglie del re 
Oriante de l’Ile-fort, vedendo una donna che reca al battesimo 


(1) F. Wolf e C. Hofmann, Primavera y ftor de romance», voi. II, p. 77 
[n. CLIT] ; Romaticero generai ó Collecion de romances castellano8 recog. 
p. D. Augusti* Dcran (Bibl. de aut. espanoles, voi. X), Madrid, 1854, t. I, 
p. 177 [n. CCCXXIII]; e più correttamente da M. Menéndez y Pelayo nel- 
llntrod. alle Obras de Lope de Vega cit., voi. XI, p. clix. 

(2) Le chevalier au Cygne et Godefroi de BouiTlon, poème historique, 
p. p. le Baron de Reiffenberg (Collection des chroniques belges inèdite 8 , XI), 
Bruxelles, 1846-1859. Sullo sviluppo della leggenda, cfr. G. Paris, in Romania, 
XIX, 314 e sgg. 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
^=URBANA-CHAMPAIGN_ 



88 


K. LEVI 


(lue figliuoli, dice che ella non può averli concepiti « s’elle n’a 
à deux liomines carnei habitement ». Ma poco dopo ella stessa dà 
alla luce sette figli, sei maschi e una femmina. La medesima 
storia è narrata con alcune varianti nell'altro poema più antico 
del cosidetto « ciclo della crociata », la Chanson dii chevalier 
au Cygne et de Oodefroi de Bouillon (1), e nella novella la¬ 
tina « de milite de la cygne » e nella romanza inglese, che ne 
derivano. Nel romanzo (leU'imperatore Ottaviano, la madre di lui 
si rivolge alla nuora Fiorimonda, che ha dato alla luce due ge¬ 
melli ed esprime il dubbio « que une famme peust avoir | Deus 
enfans ensemble a un lit | S’a deus hommes n'a son delit » (2). 
Qualcosa di simile s’ha in alcune versioni italiane dell’epopea 
francese, nel Libro di Fioravante e nei Reali di Francia. 
Andrea da Barberino racconta ( Reali , c. XLII) come una volta 
fosse giunta alla corte di Fioravante re di Francia « una povera 
« donna con due figliuoli in braccio amendue in fascia ». Druso- 
lina, moglie del re, disse: E’ non può essere che d'uno uomo 
solo nasca a uno portalo due figliuoli. Fioravante la rimpro¬ 
vera dicendo che « a Dio non è nulla impossibile; per vero la 
« femmina secondo natura può portare sette figliuoli a uno por- 
« tato, ma non più ». Nello stesso anno Drusolina « partorì due 
« figliuoli maschi molto belli » e la suocera con uno strattagemma 
pensò di far morire lei e i bambini (3). Ma quello che segue 

(1) 1m chanson dii chevalier au Cygne et de Godefroy de Bouillon, 
p. p. C. Hippeau, Paris, 1874-7. Cfr. K. Nyrop, Storia dell'epopea francese 
nel Medioevo, trad. da E. Gorra, Torino, 1886, p. 220 e segg. ; W. MCller, 
Die Suge von Schwanritter, in Pfeiffer’s, Germania, voi. I (1856), p. 418; 
La naissance du chevalier au cygne ott les enfants changés en cygne, french 
poem of thè XII th centory pubi, by H. A. Ton», Baltimore, 1889; W. Klein- 
schmidt, Dos Vei-hdltnis des Badouin de Sebourc zu dem Chevalier au cygne, 
Marco Polo, Bratulan, Barlaam und den Fabliaux, Gottingen, 1909. 

(2) Octarian altfr. Roman, eco. hgg. von K. VollmOller, Heilbronn, 1883 
\Altfranz. Bibliothelc, III]; cfr. Romania, XI, 1882, p. 609; Floovant und 
Iulian, nebst einein Anhang Uber die Oktaviansage v. F. Settegast, 
1906; P. Raj.na, I Reali di Francia, pp. 72 e sgg. 

(3) A. da Barberino, 1 Realidi Francia, testo critico per cura di G. Vau- 
delli, Bologna, 1900, voi. II, p. 176 e segg. 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
UR B ANÀ-CH AM PAfGN— 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


89 


non ci interessa. Il medesimo racconto si ritrova nel libro pa¬ 
rallelo ai Reali , le Storie di Fioravante (1), che il Rajna giu¬ 
dica scritto tra il 1315 e il 1340 (2), cioè cinquant’anni avanti la 
compilazione di Andrea da Barberino: le varianti tra i due testi 
sono pressoché insignificanti. Le storie di Fioravante sono con¬ 
servate soltanto in due manoscritti, e dei due l’uno è precisa- 
mente quello che contiene Gibello (3). Sarà casuale il raccosta¬ 
melo dei due testi della medesima leggenda? E poi la somiglianza, 
anche nelle stesse parole, di alcuni tratti di Qibello col testo dei 
Reali invita alla riflessione: 


qual due figliuòli partoriva in uno colpo. 

{Gib., m, 4). 

Come non fu possibile al Signore 
Di fare Adamo... 

Così non gli è impossibile di fare 
Duo figliuoli in un'ora ingenerare. 

{Gib., LXXXII). 


e partorì questi due fanciulli a 
uno corpo. 

{Reali, 177). 

0 Drusolina, non dire così, perchè 
a Dio non è nulla impossibile... 

{Reali). 


La rassomiglianza è assai minore rispetto alla Storia di Fio¬ 
ravante , sicché io credo che, se occorre ammettere qualche rap¬ 
porto di dipendenza, il testo derivato dovrebbe essere quello dei 
Reali e quello originario Qibello. 

Questa conclusione è assai importante rispetto alla data del 
cantare , perché ci fornisce un termine « ad quem » negli anni 
nei quali si può presumere siano stati composti i Reali’, cioè 
tra il 1390 e il 1400 (4). Il racconto delle storie di Fioravante 
e dei Reali ha nei particolari tali somiglianze col lai di Fratine 


(1) P. Rajna, Ricerche intorno ai Reali di Francia, Bologna, 1872, voi. I, 
p. 445 e segg. 

(2) P. Rajna, Op. cit., p. 33 

(3) 1 - cod. Mglb. IL 23; 2 - cod. Laurenz. Palat. 119; cfr. P. Rajna, 
Op. cit., p. vili. 

(4) Andrea da Barberino nacque circa il 1370 e morì nel 1431. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



90 


B. LEVI 


che il Rajna immagina che messer Andrea Barberino « assai 
« dotto in fatto di letteratura romanzesca, abbia avuto presente 
« il lai di Maria » (i). Ma a tutte le coincidenze d’argomento e 
di parola tra la storia di Fraisne e quella di Drusolina parte- 
cipa anche il cantare di Gibello , il quale per di più si riattacca 
al lai del frassino per tutto lo svolgimento della leggenda e non 
in un solo episodio staccato, e d’altra parte in più luoghi espli¬ 
citamente si rivela discendente da un testo francese. Per tutto 
ciò escludo fermamente che Andrea da Barberino attingesse 
direttamente dal lai e credo che ad esso si riallacci proprio 
attraverso il cantare di Gibello. 

La famiglia di questa leggenda ha dunque per capostipite il 
lai di Maria di Francia. Tra Fraisne e Gibello si debbono col¬ 
locare una o più generazioni intermedie, dalle quali procedono 
da una parte il cantare italiano di Gibello e dall’altra la romanza 
spagnuola del Biancospino. L’episodio di Drusolina nelle Stoi'ie 
di Fioravante e nei Reali mescola insieme la tradizione che 
in Italia è rappresentata da Gibello con la vecchia tradizione 
medievale di Fiorimonda e deH’imperatore Ottaviano (2). 

Lo studio intorno alla leggenda ci ha di per sè stesso condotto 
a riconoscere che il cantare di Gibello è anteriore al 1390-1400. 
Ma l’esame un poco più approfondito del poema consente di fis¬ 


ti) P. Rajna, Op. cit., p. 82. 
(2) Insomma si avrebbe: 


Fraisne 

I 

Galerent 

I 



Ottaviano 

/ 

/ 

\/ 

Fioravante 
e Reali di Francia 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
--URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


91 


sare la data della sua composizione anche più addietro. In mol¬ 
tissimi tratti Qibello ricorda assai da vicino il Bel Gherardino 
e la Pulzella Gaia. Gibello è gettato in carcere, appena giunto 
nella città di Serpentina, e la duchessa se ne invaghisce e ar¬ 
ditamente lo richiede d’amore, approfittando dell’assenza del 
« 

duca. Da lei Gibello apprende che Argogliosa è stretta d’assedio 
nella rocca di Genutrisse e ottiene di accorrere in suo aiuto» 
promettendo di uccidere il vecchio duca. Compiuta l’impresa, egli 
ritorna a Serpertina e si rende di nuovo prigioniero (XL-LXIX). 
È sempre il « motivo » del Bel Gherardino : Gherardino è chiuso 
in prigione e la Sultana di Alessandria se ne innamora. Intanto 
il Sultano parte per andare al torneo bandito dalla Fata Bianca 
e Gherardino ottiene dalla Sultana di accorrervi lui pure con la 
promessa di toglierle di mezzo il marito, che non è più buono 
a nulla (B. Gher., XXIX). 


Poi gli diceva: Amor, po’ che tu vuoi, 
a Gienutrisse andar, chieggioti un 

[dono, 

che ’l duca mio uccidi se tu puoi. 

(Gibello, XLIX). 


- Ma ben che la tua andata mi sia sconcio, 
io pur ti donerò arine e cavallo; 
ma tu mi giurerai, se Dio ti vaglia, 
d’uccidere il soldan nella battaglia. 

(Gherardino, XXVIII). 


La scena del parto della regina di Bravisse (III-IV) ricorda 
molto da vicino, anche nelle parole, la scena del parto della re¬ 
gina d’Oriente (cant. II, ott. 26-27). 

Nel giro della frase si sente la medesima mano che ha scritto 
gli altri cantari che sono con certezza del Trecento; anzi uno 
dei versi (I, 26, 2) si ritrova tal quale nella Pulzella Gaia 

(II, 62, 2). 

L’autore di Gibello non era certo un poeta colto; basta dare 
un’occhiata al suo latino per persuadercene (I, VI, 8): 

— Ave 

Maria, grazia piena, domina# tecon. 

Questo è il latino della donna Bisodia del Boccaccio e del¬ 
l’amenissimo verbu/n caro della Regina d'Oriente. Molte volte i 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
_L1RBANA--CHAMPAIGN 



92 


K. LEVI 


versi zoppicano e non si reggono che per la divisione delle sillabe 
concessa alla poesia popolare (1). Nove volte si ha l'assonanza 
invece della rima (2); due volte s’ha la ripetizione del medesimo 
verso a pochissima distanza (LI, 2; LXI, 7). Sono innumerevoli 
le zeppe, con le quali quell’artefice maldestro e malsicuro s’in¬ 
gegna di riempire i vuoti della sua flaccida musa : per quel che 
da ciascun per vero V sento (XVII, 4), di ciò non vi mento 
(XVII, 6), al ver dire (XXXII, 3), in veritade (XXXIX, 3), 
senza difetto (XL, 4), secondo la storia (XLI, 2), per quel che 
io sento (LIX, 8). 

Nonostante questa ingenuità popolaresca, il cantare di Gi- 
bello riesce sempre interessante e in alcuni tratti è vivo, forte 
e drammatico come poche altre scritture del Trecento ed ha 
accenti di profonda poesia. Oh, quale fremito di umana verità 
ha il grido della madre al riconoscere il figlio perduto! 

Per te arsa or sarò io, 
ma allegra, figliuol mio, io sì morraggio! 


XI. 

Gismirante. 

Col cantare di Gismirante s’inizia nel mio Fiore di leg¬ 
gende la serie dei cantari di Antonio Pucci (| 1388), che com¬ 
prende i cant. VII, Vili, IX e X. Al Pucci sono stati attribuiti 
anche i cantari di Pulzella Gaia (II), del Bel Gherardino (I) 


(1) La dialefe s’ha generalmente dopo nna parola tronca, coinè città (VI, 4; 
LXV, 8; LXXIV, 2), t«ì (LXIT, 4), ni (LXIV, 3) e qui si può giustificare. 
Meno legittimi mi sembrano questi casi: andava - isgomberar , LXJI, 7; 
pruova - un, LXIV, 5, ecc. 

(2) Ott. II, Bravisse: esse ; III, gionse: corpo ; III, fece: meretrice ; XXI, 
garzone: potroe ; LV, aspro: mastro ; LXVIII, mercede: mene\ LXXIII, Tar¬ 
siano: entraro ; LXXVIII, sconfiggeremmo: francheremo ; LXXXII, dolore : 
portone. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


93 


e della Donna del Vergiti (V), per i caratteri artistici di quei 
componimenti e per la somiglianza nella verseggiatura e nel- 
rarchitettura dell’azione con questi che sono realmente puc- 

t 

ciani. E inutile che io avverta che i giudizi sull’arte, essendo 
soggettivi e variabili, non possono offrire affidamenti sicuri e 
che le identificazioni, che se ne desumono, sono tanto più in¬ 
certe in questa letteratura dei cantari , che per essere popola¬ 
reggiante è poverissima di elementi individuali. D’altra parte 
noi conosciamo ancora troppo imperfettamente la lingua popo¬ 
lare e la lingua poetica del secolo XIV per poter distinguere ciò 
che era pretta creazione fantastica individuale e ciò che invece 
veniva alla luce dell’arte dal fondo oscuro del parlare quotidiano. 

I due cantari di Gismirante sono certamente del Pucci perchè 
il secondo reca la clausola finale col nome dell’autore (11,61): 
al vostro onor questo fe' Antonio Pucci. Il cantare di Bruto 
(XII) deve pure ritenersi opera certa del Pucci, perchè è com¬ 
preso nel codice Kirkup, che è una raccolta del secolo XIV, nella 
quale non sono comprese che le composizioni del banditore fio¬ 
rentino e null’altro aH'infuori di esse. Il cantare di Mad. Lio- 


nessa (IX) è anch’esso compiuto da un verso col nome dell’au¬ 
tore: Antonio Pucci il fece al vostro onore , come quello di 
Gismirante. La medesima formula, che costituiva come la firma 
dell’artista, è in ciascuno dei quattro cantari della Regina d’O- 
rlente : Antonio Pucci al vostro onor Vha fatto (I, 50); Al 
vostro onore Antonio fe’ ’l cantare (II, 50); Antonio al rostro 
onor finito ha il ferzo (III, 50); Antonio Pucci il fece al 


vostro onore (IV, 44). 


Quest’ultimo verso è identico all’ottavo 


della stanza XLIX di Mad. Lionessa. 


La leggenda di Gismirante è delle più strane ed originali. 
Nella corte di re Artù non si poteva toccar cibo se non veni¬ 
vano « fresche novelle » di fuori; da due giorni non capitava 
avvenimento alcuno e la corte non poteva mangiare, quando 
Gismirante chiese di partire per cercare ventura. Egli infatti 
trova una fata, la quale gli fornisce notizie di uno strano regno, 
dond’ella viene. La principessa del regno è bellissima, e la vi- 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 


94 


E. LEVI 


gilia di S. Martino se ne va, tutta nuda, alla chiesa; se qualcuno, 
spinto dalla curiosità, getta su di lei uno sguardo indiscreto, 
viene subito condannato a morte. La fata porge a Gismirante 
una scatoletta che contiene un capello, lucente come oro, della 
principessa. Il cavaliere reca ad Artù il prezioso capello e poi 
parte per guadagnarsi l'amore della principessa lontana; per via 
libera un grifone dalle insidie d'un drago, dà da mangiare a 
un'aquila affamata e scioglie uno sparviero che s’era impigliato 
in una siepe. La vigilia di S. Martino egli giunge su un destriero, 
regalatogli dalla Fata, nella città della principessa, entra nella 
chiesa e, per meglio vedere, si toglie la barbuta. La principessa, 
tutta nuda, in compagnia d’un drago e d’un leone, s’inginocchia 
davanti all’altare; a un tratto scorge il cavaliere. Egli ormai 
dispera della vita, ma ella sorridendo gli dice: « Io ti vo’ per 
« amante... Però se mi vorrai al tuo dimino, Verrai per me ista- 
« notte a mattutino ». Calata la notte, Gismirante si toglie in 
sella la principessa e fugge. Ma essi sono presto scoperti e in¬ 
seguiti da più di mille baroni della corte; giungono a un fiume e 
la fanciulla con una sua verghetta prodigiosa lo fa seccare come 
pietra e lo varca e poi con un altro tocco vi fa riscaturire le 
acque. Gismirante vince gli inseguitori e poi, stanco dalla lunga 
lotta, si mette a dormire tenendo la testa nel grembo della sua 
bella fanciulla. Ma, mentre egli dorme, capita l’uomo selvaggio 
che colloca sotto alla testa del dormiente una pietra e rapisce la 
principessa. Disperato, Gismirante ritorna dalla Fata, la quale lo 
avverte che non si può vincere l’uomo selvaggio se non si sappia 
dove egli ha il cuore. Gismirante va sotto la torre dove l'uomo 
selvaggio ha relegato la principessa ed esorta l’amante a strap¬ 
pare al mostro il suo segreto; ed ella infatti con fine accorgimento 
viene a sapere che il cuore è collocato nel corpo del « porco tron- 
cascino ». Se il porco venisse ucciso, il cuore passerebbe nel 
corpo di una lepre, e se venisse uccisa anche questa, nel corpo 
di un passerotto. Gismirante va a Roma, trova tutta la città in 
lutto perchè il figlio dell’imperatore deve essere dato in pasto 
e in tributo al porco troncascino, ottiene dall’imperatore delle 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
-tìR^BAN A-C RAMPAI G N -= 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


95 


armi favolosamente forti e pesanti, un cavallo indomito e sel¬ 
vaggio e si mette alla ricerca del cinghiale. Dopo una lunga 
lotta sanguinosa lo uccide e sta per squartarlo, quando dalle 
carni di lui esce una lepre. Ma l’aquila, che Gismirante avea 
disfamata, si precipita sulla lepre o la reca negli artigli al ca¬ 
valiere; egli la uccide ed ecco dalla bocca se n’esce un passe¬ 
rotto. Lo sparviero allora si lancia sul passerotto e lo porge a 
Gismirante, il quale lega la sua preda all’arcione e ritorna a 
Roma e poi al castello dell’uomo selvaggio. Ma egli non può uc¬ 
cidere il passerotto e insieme, per naturale conseguenza, l’uomo 
selvaggio, se prima questi non rivela alla sua donna il segreto 
dell’entrata e dell’uscita dal castello. Il moribondo dà alla prin¬ 
cipessa l’anello, dove è collocato quel segreto, e allora Gismi- 
ranto tira il collo al passerotto, e l’uomo selvaggio cade morto 
sul suo letto. Aperte le porte del castello, Gismirante libera 
43 donzelle e con esse e con la principessa fa ritorno alla corte 
di re Artù. 

Questa leggenda è molto singolare; per la ricchezza dei par¬ 
ticolari fiabeschi essa rappresenta forse il più antico e importante 
antecedente delle Piacevoli notti dello Straparola e segna una 
data memorabile nella nostra letteratura mitica. Il Pucci stesso 
era ben convinto dell’importanza di questa sua opera e ne parla 
con un entusiasmo e con una compiacenza evidenti: 

E prego voi, signori e buona gente, 
che con affetto mi dobbiate udire; 
io vi dirò d’una storia novella, 
forse che mai non l’udiste sì bella. 

La novella certamente non ò stata inventata dal Pucci, prima 
di tutto perchè queste fiabe non si inventano mai, e poi perchè 
il poeta stesso ci avverte che egli ne ha tratto l’argomento da 
un libro, da un certo libro che egli andava assiduamente sfo¬ 
gliando per trarne piacevoli « novità » (1). Del resto la facilità 


(1 ) Cant. II, ott. 2, vv. 4-6. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



96 


E. LEVI 


stessa con la quale il Pucci veniva componendo questi cantari 

è indizio ch’egli piuttosto che comporli faticosamente da molte 

0 

fonti, li traeva alla lesta, tali e quali, da uno o più libri che 
egli si limitava a tradurre e a verseggiare. L’esempio del Bi'uto 
(XII), che è tradotto alla lettera da un capitolo di Andrea Cap¬ 
pellano, è eloquente. 

Ma quale fosse il libro che il Pucci aveva sotto gli occhi du¬ 
rante la composizione di Gismirante, non saprei indicare con 
precisione. La leggenda che fornisce argomento al primo dei due 
cantari — quella della principessa che cavalca nuda attraverso la 
città e vuole siano condannati a morte i curiosi che osano lan¬ 
ciarle solo uno sguardo indiscreto e impudico — è una delle più 
celebri, perchè fu cantata dal Tennyson (1) e fu recentemente 
portata sulle scene in un’opera del Mascagni, ne\\'Isabeau, e in 
un dramma di Maeterlinck, Monna Vanna. Secondo l’antichis¬ 
sima leggenda sassone raccolta dal Tennyson, Leofric, uno dei 
più cospicui personaggi del tempo di Edoardo il confessore (2), 
avrebbe una volta imposto alla città di Coventry infiniti gra¬ 
vami e balzelli. La bella e pietosa moglie di lui, Godiva, per 
indurlo a cancellare quei crudeli decreti, scherzando si sarebbe 
offerta di cavalcare nuda attraverso la città pure di redimerla, 
e LeotTric avrebbe accettato l’oflerta. E allora Godiva. vestita 


dei suoi soli capelli, compì la mirabile cavalcata. 11 fatto è rac¬ 
contato in moltissimi testi antichi e cantato in alcune ballate 


popolari del sec. XVII e XVIII. In queste si fa anche il nome 
di un ingenuo curioso, il quale, come Gismirante, non avrebbe 
saputo resistere alla tentazione di ammirare quelle regali nu¬ 
dità: « peeping Tom ». Ogni tre anni, anche adesso, si compie 
a Coventry una cavalcata simbolica per commemorare l'eroica 
impudicizia di lady Godiva (3). 


(1) iAtdy Godiva, in The IForLuof Alfred Tknnysox, London, 1894, p. 103. 

(2) Cfr. T. Hoimjkin, The tìist. of England from thè euri test times to thè 
Norman conqnest, London, 1906, p. 447. 

(3) Nella Biblioteca civica di Coventry vi è poi una raccolta di libri e di 




Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


97 


Della cavalcata leggendaria ci parlano molte cronache del se¬ 
colo XIV. Ecco il racconto dei Flores historiarum del monaco 
Matteo di Westminster (i). 

Haec autom comitissa [= Godiva] religiosa villani Coventrensem a gravi 
servitute ac turpi liberare affectans, saepius comitem virum suum magni» 
praecibus rogavit ut Sanctae Trinitatis, Sanctaeque Dei Genitrici» intuitu 
villani a praedicta absolveret servitute. Cuiuque Comes illam increparet quoti 
rem sibi dampnosam inaniter postularet, prohibuit constanter ne ipsam super 
hoc de caetero conveniret. Illa e contrario, pertinacia muliebri ducta, virum 
indesinenter de petitione praemissa exasperans, tale responsum ertorsit ab eo: 
— Ascende, inquit, equum tuum nuda et transi per mercatum villae ab initio 
usque ad finem, populo congregato et, cum redieris, quod postula.» impetrabis. 
Cui comitissa respondens ait: — Et si hoc ùlcere voluero, licentiam mihi 
dabis? — Ad quam Comes: Dabo — inquit. Tunc Godyva comitissa, Deo 
dilecta, die quadam, ut pracdictum est, nuda equum ascendens, crines capiti» 
et tricas dissolvens, corpus suum totum, praeter crura candissima, inde velavit 
et, itinere completo, a nemine visa, ad virum gaudens hoc prò miraculo ha- 
bentem, reversa est. Comes vero Leofricus, Coventrensem a praefata servitute 
liberans civitatem, cartam suam inde factam sigilli sui munimine roboravit. 

La medesima narrazione è nel Chronicon (ab a. 588 usque ad 
a. 1198) di Giovanni Brompton, che scriveva nel Quattrocento (2), 
nel Polychronicon (3) del monaco Ranulfo Higden (f 1363) e 
nella Compilano de eventibus Angliae di Enrico Kuigton, ca¬ 
nonico di Leycester (f 1395): 


scritture riguardanti la cavalcata di Godiva ; cfr. il Dictiotiary of Nat. Bio- 
graphy, London, 1908, voi. Vili, pp. 36-88 [Godiva]. La ballata scozzese 
Leoffricus thè n<Me evie si legge in Bishop Percy’s Folio Manuscript ed. 
by J. W. Hales and F. J. Fcrnivall in 3 voi. vrith a supplementary voi. of 
€ Loose and Humorous Songs *, 1867-8. Su questa e sulle altre raccolte di 
canti popolari inglesi, cfr. A Brandi., Englische Volkspoesie in H. Pacl’h 
Grundriss der Germ. Philól., Il, I, pp. 837 e seg. 

(1) Matthaei Westmonacensis, Flores historiarum usque ad a. 1307, nei 
Rerum Britann. M. Aevi Script., n° XCV, London, 1890, voi. I, p. 576. 

(2) Potthast, Bibl. hist. M. Aevi, p. 657. 

(3) Rerum Brìi. M. Aevi Scriptores, n° XLI, voi. VII (1879), p. 198. 

Giornale storico — Sappi. n u IO. 7 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



98 


K. LIVI 


Atl jugem quoque in stantia») uxoris suae urbem suam Coventrensem ab 
«unni tolneto praetcrquam de equis liberali) fecit ; ad quod impetranduni uxor 
eius comitiva Godgiva, quodani mane, per medium urbis, nuda sed comis 
tecta equitavit (1). 


Che il Pucci abbia conosciuto queste cronache inglesi non è 
punto credibile, e neanche si può supporre che egli abbia tratto 



ricordo di Godiva (idilli istoria ecclesiastica di Orderico Vi¬ 


tale, perchè ivi è esaltata la pietà di « Godiova », ina non è nep¬ 
pure menzionata l'epica e mirabile cavalcata di Coventry (2). 

Molto meno arduo è lo studio degli altri elementi leggendari, 
che sono connessi con la prodigiosa cavalcata della Principessa, 
nel bizzarro cantare di Gismirante. Il capello d'oro perduto 
dalla principessa lontana e recato dalla fata a Gismirante ri¬ 
corda subito uno dei più poetici episodi della leggenda di Tri¬ 
stano. Re Marco, cedendo alle istanze dei suoi baroni, decide 
di scegliersi una sposa. Una rondinella, volando in Cornovaglia 
dall’ Irlanda, lascia cadere nella reggia un lungo capello di fan¬ 
ciulla. Allora re Marco annuncia che sposerà la donna, dalla 
cui chioma è volato via l’aureo capello. Tristano, appena lo vede, 
riconosce nell’aureo filo un capello di Isolda e parte alla ricerca 
della bella lontana (3). L’aiuto prestato a Gismirante dai tre ani¬ 
mali riconoscenti, l’aquila, il grifone e lo sparviero, è uno dei 
luoghi comuni del repertorio della fantasia popolare. Un riscontro 
evidente fu già additato nel Pehtamerone del Basile (III, 4). Nella 
sua compiutezza, l’ordito intero della seconda parte del cantare di 


(1) Rerum Brit. M. Aevi Script., n. XCU, voi. I, pp. 43-44. Il racconto di 
Banulfo Higden è identico anche nelle parole. 

(2) Ordericj Vitali», Ecclesiasticae historiae, 1. IV, in Historiae Nor¬ 
man norutn scriplores antiqui, ed. A. Duchesnius, Parigi, 1619, voi. Il, p. 511 
e in Migne, Patrologia latina, voi. CLXXXVIII, col. 314. 

(3) Così raccontano Thomas, Eilhard di Oberg e il poemetto della Nolte 
Tristan ; cfr. J. Bédier, Le roman de Tristan par Thomas, Paris, 1902 
(S. A. T. F.), voi. I, p. 110; voi. II, p. 214 ; W. Golthkr, Tristan und Isolde 
in den Dichtungen des M. A. und der Neuen Zeit, Leipzig, 1907, pa¬ 
gine 19 e segg. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN - 



I CANTARI LKGGKNDARI ITALIANI 


99 


Gismirante si trova, identico persino nei particolari più mi¬ 
nuti nelle novelle greche ed albanesi. L’eroe, il « forte Giovanni » 
conquista una fanciulla, la quale poi gli viene rapita da un vecchio 
mago. « La fanciulla dimanda al rapitore dove sta rinchiusa la sua 
« forza e quegli le indica un'aia sopra la montagna, dove all’ora 
« del mezzodì ci viene un serpente con dieci teste, una molti- 
« tudine d’altri serpenti lo seguono e lo circondano in cerchio; 
« chi saltasse nell’aia sopra le teste dei serpenti senza toccarli, 
« e abbattesse le dieci teste di quello di mezzo, mi darebbe la 
« morte (1). In un'altra versione (di Witza) la forza del Dracos 
« ù invece legata ad un porco, in cui si trovano due colombe. 
« La versione di Syra infine si mostra la più completa di tutte: 
« il nome del mostro rapitore è qui Tanzisis ; egli vorrebbe in- 
« gannare la fanciulla additandole successivamente una scopa e 
« una pentola come gli oggetti in cui sta la sua forza, come nel 
« poema del Pucci egli le indica una colonna. In ambedue le 
« versioni la sagace fanciulla gli si mostra credula, inginocchian- 
« dosi innanzi i detti oggetti in atto di adorazione; il gigante, 
« convinto del suo animo puro, è deciso a scoprirle la verità, e 
« rivela come la sua forza risegga in un porco selvatico, in cui 
« sono rinchiusi 3 uccelli cantanti. 

« Nel racconto valacco il mistero della vita ù ancora più coin- 
« plicato: in un lago distante vive un dragone; in quello sta 
« rinchiuso il porco, nel porco una lepre, e poi successivamente 
« una colomba ed un passero. Nella versione russa è una lepre, 
« in cui sta rinchiusa un'anitra e in quella un uovo » (2). 

Della leggenda si è voluto persino scoprire il valore simbo¬ 
lico e nel segreto dell’uomo selvaggio, che ha il cuore nel « porco 


(1) J. H. Hahn, Griechiscfte und Albanemche Màrchen, Leipzig, 1864, 
n. XLIV. 

(2) A. Wesselofsky, Le tradì;ioni popolari nei poemi di Ant. Pucci, nel- 
VAteneo italiano, Giornale di scienze, lettere ed arti, Firenze, 1866, voi. I, 
pp. 224-229. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



100 


K. LEVI 


« troncascino » e nel passero si vide la figurazione della « forza 
« esuberante e creatrice della natura »! 

Del particolare della verga ♦ che faccia seccare ogni gran 
fiume... Po’ ritoccando lo fa ritornare » (I, ott. 32) il Wesselofsky 
stesso ha additato un riscontro, anzi probabilmente la fonte in 
un passo della versione del Libro d’amore di Andrea Cappel¬ 
lano, libro che era cosi famigliare al Pucci (1). Il re d’Amore 
regala a Gualtieri una verga di cristallo che egli deve gettare 
nel primo fiume che trova. 

... sali’ nel mio cavallo proprio et in un momento ad un fiume pervenni, 
nel qual pittai la cristallina verga, e senza impedimento tornai nel mio paese. 

Anche in Gismirante (2) la fattura del verso è quella consueta 
della poesia popolare: è frequentissima la dialefe, vi si nota una 
rima equivoca (veritad’è — boutade , c. II, ott. LIV/v. 7-8) e 
due volte vi appare l’assonanza in luogo della rima {drago: 
dado , ott. XXVIII; tutti : dotti , ott. XL). Si ponga mente anche 
alla compiacenza con la quale il poeta riprende a distanza frasi 
e spunti simili, per aiutare la memoria ed incitarla: cant. II, 
ott. XLI, 7: 

Disse: — Il servigio non si perde mai; 
tu mi pascesti e or merito n’arai. 

Cant. II, ott. XLIV, v. i-5: 

Dicendo: ... 

... Il servigio e’ non è perduto 
che a me, cavalier, far mi volesti. 


(1) Cfr. il cap. XII, pp. 110 e sgg. 

(2) GismiratUe è nel cod. riccard. 2873, c. 45-57 (sec. XV). Il ms. è de¬ 
scritto da P. Rajna, I cantari di Carduino giuntovi quello di Tristano e 
Lancellotto quando combattettero al Petrone di Merlino, Bologna, 1873, 
nella Scelta di curiosità letterarie, disp. CXXXV. Il cantare fu edito da 
F. Corazzisi, Miscellanea di cose inedite o rare, Firenze, 1852, pp. 275-306. 


Digitized by 




Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAK3N - 



i cantasi leggendari italiani 



XII. 

Bruto di Brettagna. 

Il cantare di Bruto è inedito. È il secondo del codice Kirkup, 
dove vien subito dopo la Regina (l'Oriente. Quel celebre codice, 
che prende il nome dal pittore inglese Seymour Kirkup, che 
lo possedeva circa mezzo secolo fa nella sua biblioteca fioren¬ 
tina, dopo molte peregrinazioni oltre l’oceano, è recentemente 
ritornato a Firenze, donato alla B. N. dal collegio di Wellesley. 
Autografo del Pucci questo manoscritto non è certamente; lo 
escludono il confronto con l’autografo della Fiorita di varie 
storie (1362) e le numerose forme non toscane, che sono con¬ 
suete in questo testo. Tuttavia la costituzione stessa di questa 
raccolta, tutta dedicata alle opere del Pucci, la precisione delle 
didascalie, la conservazione dei versi finali con la soscrizione del¬ 
l’autore, clausole che invece sono soppresse o capricciosamente 
mutate negli altri codici, tutti questi caratteri conferiscono al 
codice Kirkup una grande importanza. La scrittura e la filigrana 
inducono a credere che il libro sia stato messo insieme « fra il 
« terzultimo e il penultimo decennio del sec. XIV » (t). Il can¬ 
tare di Bruto occupa cinque faccie a due colonne (c. 25-27); in 
origine non aveva alcuna intitolazione, ma poi nel Quattrocento 


(I) Cfr. S. Morpi'rgo, L'apografo delle rime di Antonio Pucci, donato 
dal Collegio di Wellesley alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, nel 
Bollettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di stampa, 1912, 
n. CXXXIII; M. H. Jackson, Antonio Pucci’s poems in thè « codice Kir- 
kupiano » of Wellesley college, nella Romania, XXXIX, 315-333. Nel voi. 
Kirkup erano rilegati insieme due codici: un Filostrato (di cc. 48) che è 
rimasto al Collegio di Wellesley e l’apografo Pucciano. Questo è mutilo; co¬ 
mincia a c. 17; e la mutilazione è antichissima perchè sull’alto della c. 17 
due diverse mani del principio del secolo XV notarono : « Chomincia i chau- 
tari della reina d’Oriente ». 


Digitized by 




Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
AN A-C H AM PAI G N 



102 


E. LEVI 


due diverse mani vi sovrapposero la scritta : B/'uto di tìre- 
tagnia. 11 cantare comprende 46 ottave ed ha questo argomento. 

Bruto di Brettagna, barone senza pecca, è innamorato di una 
dama, la quale gli ordina di andare nel castello di re Artù a 
prendervi uno sparviero, due bracchi e il libro dove a lettere 
d’oro sono scritte le regole d’amore. Per via incontra una fata 
che gli suggerisce il modo di impadronirsi di quelle tre cose mi¬ 
racolose: 1° egli dovrà vantarsi di possedere l’amore della più 
bella donna del mondo e provarlo con l’armi in pugno; 2* vin¬ 
cere due giganti, che son posti a guardia del guanto dello spar¬ 
viero. Oltre a questi preziosi avvertimenti la buona Fata regala 
a Bruto un cavallo più veloce del vento. Il barone giunge a 
un ponte gettato su un fiume largo e profondo, e difeso da un 
gigante. Egli abbatte il gigante e si accinge a passare il ponte, 
quando un altro gigante, che è sull’altra riva del fiume, inco¬ 
mincia a scrollare « si forte il ponte — che spesso sotto l’acqua 
« il facìa andare ». Ma Bruto gli è subito addosso, lo afferra e 
lo getta a capofitto nell’acqua. 

Oltrepassato il fiume, il barone si trova di fronte a un castello 
disabitato; scende dal cavallo, gli toglie il freno e lo conduce 
accanto a un gran vaso d’argento pieno di biada, perchè si ri¬ 
stori. Ed egli si pone a sedere a uua mirabile mensa, imbandita 
all’aperto; ma ecco che si spalanca con fragore una porta del 
palazzo, e ne esce un gigante con un terribile randello in mano, 
non di legno come i consueti, ma di metallo, e provoca e sfida 
Bruto. Dopo una lunga lotte il cavaliere riesce ad abbattere 
l’avversario e a spiccare il guanto fatato dal luogo ov’era celato. 
Mentre egli compie questo atto, si odono dei lamenti miste¬ 
riosi (XXXV). 

Bruto si rimette in via e giunge al palazzo di Artù che è 
tutto d’argento all’esterno, il tetto d’argento e d’argento la fac- 
ciata, e tutto d’oro all’interno, salvo le panche e le scale che 
sono d’avorio. I dodici guardiani, vedendo il guanto fatato, la¬ 
sciano passare il cavaliere ; ed egli sale le scale e va nella sala 
del trono a prosternarsi davanti al re Artù e a richiedere lo 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
TICJKB AN A-CHA*MPAI GN ~ = 


I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


103 


sparviero, compiendo il vanto della sua donna. Uno dei baroni 

10 sfida; ma Bruto lo abbatte e lo uccide (XLIII). Poi va alla 
stanga, ne spicca lo sparviero, prende al guinzaglio i due bracchi, 
toglie il libro delle regole d’amore, e si rimette in via (XLV). 

Ritrova la fata, la ringrazia e riprende il cammino verso la 
sua donna, facendo tacere la voce della riconoscenza che gli im¬ 
porrebbe di rimanere accanto alla sua bellissima protettrice. 

Una compiuta redazione di questa curiosa leggenda si ha in 
un capitolo [Vili] del secondo libro del De Amoi'e di Andrea 
Cappellano. Quel capitolo ebbe una certa diffusione anche come 
opera indipendente dal resto, certo per l’interesse che suscitava 

11 romanzesco racconto (1), che esso contiene. Che il Pucci at¬ 
tinga proprio al libro di Andrea Cappellano e non alla diffusa 
leggenda popolare, che probabilmente sta a fondamento del testo 
latino, non può esservi dubbio; le corrispondenze sono cosi per¬ 
fette tra l’uno e l’altro racconto che molte volte vien fatto di pen¬ 
sare a una vera e propria versione letterale. Non siamo di fronte 
ad uno dei soliti lontani « riscontri » ; abbiamo una fonte precisa 
e immediata. La novella latina è molto lunga ; e perciò il Pucci 
qua e là abbrevia e sunteggia, specialmente dove l’esposizione dei 
fatti veniva sostituita dal dialogo tra questo e quel personaggio, 
tutto risplendente di eleganze e di ricercatezze formali, che non 
si potevano rendere in volgare senza cadere in violentissime 
stonature. Ponendo la prosa latina di Andrea Cappellano di faccia 
alle ottave del banditore fiorentino noi mettiamo di fronte due 
secoli e due tipi opposti di cultura e di gusto: la raffinatezza 
agghindata d’un retore medievale e la facilità sprezzante d'un 
uomo di popolo del Trecento, la retorica di un clerico e la li¬ 
bertà fantasiosa d’un ciompo. Nè sempre il confronto giova ad 
Andrea Cappellano, perchè con tutti quei ghirigori il suo la¬ 
tino è un brutto latino, e invece il cantare di Bruto è un bei¬ 


ti) Andreae Capellani, regis Francorum, De Amore, libri tres, recensuit 
E. Trojel, Hanniae, 1892, pp. 295-309. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
~ OTTBÀNA-CHAMPAIGN 



104 


E. LEVI 


lissimo zampillo di fresca poesia spontanea. Chi non ci crede, 
lo legga. 

Nella novella latina si narra di un certo cavaliere di Britanuia 
che, errando per una selva, trova una fanciulla, la quale su¬ 
bito gli dice di conoscere lo scopo segreto delle sue peregri¬ 
nazioni, cioè la conquista dell’amore d’una bella donna di Bre¬ 
tagna, e il modo di conseguirlo. Questo dialogo è invece risolto 
dal cantastorie in una breve introduzione narrativa (ott. 3-9) ; 
poi i due testi procedono di pari passo: 


[Brito mii.es], 

Ait ergo puell&: — Accipi- 
trcm, quei» quaeris, habere non 
• posse*, nisi primitus in Arturi 
palatio proelianiìo convincas quod 
(iominae gaudes pulchrioris amore 
qnam eoruin aliquis, qui in curia 
demorantur Arturi ; palatium vero 
intrari non posses, nisi primo cu- 
stodibus chirothecam demonstrares 
acci pi tris. 

Sed chirothecam non est ha¬ 
bere possibile, nisi contra duos mi¬ 
lite» pugnando fortissimo» in du- 
plicis pugnae agone obtineas. 


Cui Brito respondit : — Co- 
gnosco, me in hoc labore non posse 
proticere, nisi mihi vestrae manus 
auxilia porrigatis. Ideoque me re¬ 
stio dominatui volo subiicere, sup¬ 
plici a vobis orationis aftatu de- 
poscens, ut vestra in hoc facto mihi 
iuvamina porrigatis, et ut de ve- 


Brito di Bretagna. 

X. 

Ed ella disse : ... 

Sappi che quel tu brami cotanto 
in nulla guisa acquistar non potrai 
se primamente tu non ti da’ vanto 
d'avere amor di bella donna, s’hai, 
più ch’alcun altro cavalier che truovi, 
e per battaglia poi convien che ’1 pruovi. 

XI. 

Ma nel palazzo non potrà' entrare 
se ’l guanto de l'uccel non hai primieri, 
e tu quel guanto non potrà’ ’cquistare 
se non combatti con duo cavalieri, 
i quali son posti ’l guanto guardare, 
e son gioganti molti arditi e fieri... —. 

XII. 

E Bruto disse: — Dama, i’ non potrei 
donna nomar di tanta appariscenza. 

Se non ti fosse grave, ben vorrei 
che tu di te mi dessi licenza. 


Digitized 


zed by Google 


Originai from 

„UNJVERSITY OF ILUNOJ^ 
- ÙRBÀNA-CHAMPÀIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


105 


atro milii concedati assensu qua- 
tenus vestrae dominationis intuitu 
licenter valeain amorem inihi do- 
ininae pulchriori adscribere —. 


Sic tandem ei osculum porrexit E con fermezza d’amore il baciòe 
anioris et eqoum illi, super quo e un destriero fornito gli donde, 
residebat, exhibuit atque subiunxit. [XII, 7-8]. 

A questo punto del testo latino la donzella enumera minuzio¬ 
samente i pericoli che il cavaliere dovrà affrontare e gli accor¬ 
gimenti che dovrà porre in atto; nel cantare è omessa tutta 
questa anticipazione inopportuna del racconto che seguirà poi. 
E infatti ognuno vede quanto fosse uggioso questo raddoppia¬ 
mento della novella, la quale prima viene detta nel dialogo e 
poi rappresentata nell’azione. Quando finalmente alle chiacchiere 
si sostituiscono delle cose, allora ricomincia il cammino paral¬ 
lelo delle due novelle: 


'tandem per agrestia nimis at¬ 
que ferocia loca decurrens ad lìu- 
vium quendam devenit, qui mirae 
latitudini atque altitudini erat 
una profundus, et cuius prae ninna 
sublimiate riparum cuilibet dene- 
gabatur introitus. Iuxta ripae ta- 
inen estrema diutius ambulando 
devenit ad pontein, qui tali erat 
forma compositus. Pons quidem 
erat aureus et in duabus utriusque 
ri pi capita tenens; medium vero 
ponti residebat in aqua et sepius 
vacillando procellarum vidcbatur 
unda submersum. At ilio autem 
capite, onde Britonis erat accessus 
miles quidam residebat in equo, 


A la riva d’un gran fiume giunse. 

XIV. 

E, non possendo quel fiume passare 
perch’era cupo e d’ogni lato monte, 
lungo la riva prese a cavalcare 
tanto che d’oro ebbe trovato un ponte 
ch’era sì basso, che per l’ondeggiaro 
l’acqua impresso ispessa facìa fonte. 


Dal primo capo un cavalier avea 
armato e fier quantunque si potea. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 





106 


E. LEVI 


qui ferocia erat aspectus. Quem 
Brito urbano satis verbo salutat, 
sed ipse resalutare Britonem con- 
tempsit. 


XV. 

E Bruto, poscia che l’ebbe veduto, 
il salutò co’ molta cortesia 
e quello [non] rispuose a suo saluto, 
ma doinandollo poi perchè venia. 


Il cavaliere invita il brettone a deporre le armi e, al diniego 
di lui, lo assale con impeto; ma è abbattuto e vinto; cui cum 
vellet caput Brito penilus amputare , humillima uteris prece 
pontanus veniam a Britone meru.it impetrare quaesitam. 

[XIX] E quel giogante gli chiese mercede 
ed egli perdonò per cortesia... 


Dall'altra parte del fiume sta un altro guardiano, il quale, ve¬ 
dendo che il cavalier brettone s'avanza verso il ponte, 


... poutcm [scilicetj aureuin tanta 
coepit fortitudine agitare quod sae- 
pissime sub aquis non poterat ap¬ 
parerò submersus. 

Brito vero plurinium super equi 
bonitate confìsus in pontis tran¬ 
sito viriliter procedere non de- 
sistit. 


si forte il ponte cominciò a co ria re 
che spesso sotto l’acqua il facìa andare. 

[XIX, 7-8]. 

E Bruto per bontà del suo cavallo 
pur passò oltre per lo ponte ratto... 

[XX]. 


e affoga nell'acqua il pontiere (pontis agitatorem suffocavit in 
aqua), poi procede per dieci stadi e perviene in un giardino, 
nel quale si innalza un castello meraviglioso, ma privo di porte ; 

Ex nulla tanien palatii parte ina no’ parca ch’avesse abitatore, 
potuit conspicere portam vel ha- però che porta, finestra o sportello 
bitatorem quemcumque videre. no’ si vedea da lato nè da fuori. 

[XXn, 4-6]. 

Nel giardino è una mensa imbandita; il cavaliere si pone a 
sedere, ma subito appare un gigante minaccioso con una gran 
clava tra le mani. Il gigante chiede con qual diritto Brito si sia 
assiso a una mensa non sua; ed egli risponde: 


m ‘J 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 




I CANTAMI LEGGENDARI ITALIANI 107 

Cunctis abundanter regia debet esse exposita mensa, nec cibum regiaroque 
potum decet alieni denegari. Nani et mihi licet de stipendiis, quae militibus 
sunt parata, praesumere, quia militari» sola me cura detentat... 

Questo passo ci aiuta ad intendere un’ottava assai oscura e 
intricata del cantare (XXVI): 

— «Se queste mense son per gentil gente 
ed io mi tengo ben d’esser gentile, 
chè ’l padre mio fu molto soficiente 
e suo paese molto signorile. 

A la corte del re eh’è sì possente, 
perch’io vi mangi no’ manca su’ stile • —. 

Cioè: la reggia non vien meno al suo decoro, se io mi pongo 
a questo desco, giacché le mense non si possono negare ai ca¬ 
valieri ed io sono di nobile schiatta. 

Cui Brito ait: — Ego quidem — E son venuto per portarne meco 

chirothecam quaero accipitris et uno isparviere che ’l re Arturo ha seco. — 


haec fuit mei adventus occasio. fXXV, 7-8). 

XXVII. 

Ostiarius vero respondit: — 0 Disse il giogante: — Oh! t’inganua il 
6tulte! Quanta te ducit insania, (pensiero. 


Brito! Prius enim mortuus deciem chè gran sempricità nel cor t’abonda; 
reviviscere posse» quam ea, quae chè sarebbe impossibile ad avere 
asserì», obtinere. al più prod’uom, che è in Tavola rotonda; 

... Tanta enim sum fortitudine ch’è per guardia del guanto più vedere 
potens, quod vii ducenti meliores che quel palazzo intorno uon cerconda, 
Brìtanniae milite» possent irato e, se compagni avessi un centinaio, 
mihi resistere —. ti reterebbe il passo il portinaio. 

L’ottava è assai difficile. Il codice reca: che per guardia del 
guanto può vedere che quel palazzo intorno non cierconda. 
Mutando il può del manoscritto in più , intendo : « è impossibile 
« ottenere quel guanto poiché vi è per guardia di esso più ve- 
« dere , cioè cosa maggiore a vedersi e più terribile, che non ne 


Digitized by 


Google 


• «-x 




Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
' URBÀNA-CHAMPAIGN 




108 


E. LETI 


« comprenda all'ingiro tutto il grandissimo palazzo di Artù ». Nel 
testo latino manca il tratto corrispondente a questo paragone 
cosi aspro per la violenta ellissi. 

Il generoso « Brito » 


sic ait: — Absit quod unquain 
eque» cum pedite certe»], nani pe- 


ditem quemque decet cum 
coramittere pugnai» ! 


dite 


rispuose allora il generoso Bruto: 

Non piaccia a Dio che io monti in arcione 
ched e’ sarebbe troppo gran partito 
combattere a cavai con un pedone! 

[XXX, 1-4]. 


e ferisce in un braccio il gigante e poi lo obbliga a condurlo 
nel luogo « ubi chirotheca reponitur ». Nel palagio di Artù si 
innalza una bella colonna d’oro, che sostiene il peso di tutto 
redifido; da essa pende il guanto tanto ambito. Uscito da quel 
palazzo (t), Brito attraversa altri giardini ed entra in un se¬ 
condo castello, ch’era la reggia di Artù. La lunghezza della fac¬ 
ciata era di 000 cubiti (« secento braccia » dice il cantare), la 
larghezza di duecento, il tetto e la faccia eran d’argento, d’oro 
e di pietre preziose l’interno. Nel palazzo era un’altra colonna 
d'oro, sulla quale era lo sparviero, ed eranvi legati i due bracchi. 


Sed antequam ad predictum possct devenire palatium obstabat antemurale 
quoddam inunitissimum ad palatii nituram adstructum ad cuius custodia»] 
milites erant duodecim fortissimi deputati, qui neminein ulterius pertransire 
sinebant, nisi chirotecaui deuionstraret accipitris, vel nisi gladio pugnando 
vellet assumere viam. Quos cum vidisset Brito, chirothecam eia festinanter 
ostendit accipitris. Qui ei aperto itinere dicunt: — Haec quidem via non 
est tuae vitae salubria sed penitus inducta dolori». — 


Nel cantare di Bruto la descrizione del palazzo è posposta 
all’incontro delle dodici guardie ed il discorso di esse vien tra¬ 
dotto con queste semplici parole : — Passa, chè la tua vita sarà 
molto bassa — (XXXVI). Segue nella novella latina e nel can¬ 


ti) Nel cantare non si parla di questa colonna e i due palazzi souo riu¬ 
niti in uno solo (ottave XXXVI-VII). 



Originai from 

UNIVER SITY OF ILLINOIS AT 
OkbANA-CHAMPAIGN 



V 

I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 109 

tare (XXXIX-XLIII) l’apostrofe di un cavaliere della corte di 
Artù a Brito, il duello e la vittoria di Brito; e allora Brito può 
togliere dalla colonna il guinzaglio dei due bracchi, lo sparviero 
e il libro, che ne pendeva, delle regole di amore. Quel libro è 
indicato assai sommariamente nel cantare (« e tolse lo sparvier, 
« la carta e' cani », XLIV. 1); ma nella novella è descritto con 
gran ricchezza di particolari: 

... vidit chartul&m conscriptam quae aurea catenella praedictae inhaerebat 
perticae collimata, de qua quuni diligenter erquireret, tale pronieruit audire 
responsum : — Haec est enim chartula, in qua regulae scribuntur amoris [quas] 
rex ore proprio amatoribus edidit. Hanc te asportare oportet et regulas amati - 
tibus indicare, si pacificum volueris accipitrem reportare. — 

Presa licenza da Artù, Brito ritorna alla signora della selva, 
che trova nel luogo preciso dove l’aveva incontrata la prima 
volta. Ella gli dà licenza di riprendere il cammino verso la Bri- 
tannia e dopo ben dieci baci si accomiata da lui, non senza un 
sospiro di malinconica delusione. 

Il libro di Andrea Cappellano fu composto, sembra, « sullo 
« spirare del sec. XII o nei primissimi anni del XIII » (1); e fu 
subito assai popolare in Italia. È citato da Albertano da Brescia 
nel Liber de doctrina loquendi et tacendi (1245) e liberamente 
tradotto in francese da un italiano del Nord, Enanchet, nella 
terza parte dei suoi Ammaestramenti di un padre ad un figlio, 
che furono trascritti nel solo codice, che abbiamo, da un certo 
Rotino, guardia della torre « que vient dite Mizane » nel 1287. Di 
Andrea Cappellano abbiamo due traduzioni toscane: 

1° Il libro dell’amore il quale si chiama « lo Gualtieri » 
fatto da Andrea Cappellano, della seconda metà del Trecento 
(cod. Barber. XLVI-28); 

2° la cosidetta versione fiorentina, anteriore al 1372, che si 


(1) Cfr. P. Rajna, Tre studi per la storia del libro di Andrea Cappel¬ 
lano, negli Studi di filologia romanza, voi. V (1890), pp. 193-265. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



110 


K. LEVI 


conserva in quattro mss.: Riccard. 2317 (datato: 18 di marzo 1372) 
e 2318; Laurenz. XLI. 36; Palat. E. 5. 6. 23. 

Oltre a queste due traduzioni complete abbiamo anche una 
traduzione parziale della sola novella del cavaliere brettone in 
un bellissimo manoscritto del pieno Trecento (1): Gualtieri d’a¬ 
more nel primo libro del chavalicre brettone com’elli arrivò. 

Questa terza versione non risale all’originale latino, ma è un 
rimaneggiamento della traduzione fiorentina, anzi, forse, proprio 
del testo riccardiano più antico (2). Antonio Pucci, autore del 
Unito di Brettagna , era un lettore appassionato del Libro d’a¬ 
more di Andrea Cappellano, ch’egli cita a tutto spiano nel suo 
Zibaldone : « Ora diremo di Ghualtieri, che mostra che si inten- 
« desse molto dei fatti d’amore » e « Gualtieri d'amore parlando 
« e assolvendo... » e « anchora dicie Gualtieri » ecc. (3). Dal Libr'o 
d'amore il Pucci trasse anche una scabrosa « questione » che 
raccolse in un sonetto, divenuto poi popolare forse per la sua 
sudiceria (4). Il Rajna crede che nei suoi molteplici lavori il 


(1) Laurenz. XLII. 38, c. 21-22. Questo cod. è mutilo; una parte costituisce 
il cod. magliai). VII. 624. La novella di « Gualtieri d’amore » fu pubblicata 
tra le Prose antiche di Dante, Petrarcha et Boccaccio et di molti altri no¬ 
bili et virtuosi ingegni nuovamente raccolte, Fiorenza, 1547, pp. 41-44, col 
titolo: « Gualtieri d’amore nel libro del Cavaliere brettone » e poi moltissime 
volte ristampata tra le novelle del Doni. Il testo riccardiano della Noe. di 
Gualtieri (riccard. 2317, c. 55) fu ed. a Bologna nel 1856 ( Novella cavalle¬ 
resca tratta dal Libro d’amore), poi ripubblicata collo stesso titolo a V enezia, 
1858, e poi a Bologna, 1876 (« T T n capitolo d’amore del libro di mess. Andrea 
Cappellano d’Innocenzo IV >); cfr. F. Zambkini, Le opere volgari a stampa, 
col. 225 e 689. Il testo laurenziano delle « Regole d’amore > le quali seguono 
la novella del « Cavaliere brettone » è riprodotto in altri tre mss. affini, ap¬ 
partenenti ad una medesima famiglia : 1) Laurenz. XL. 49; 2) Panciat. XXIV; 
3) Parigino, Bibl. Nat., fonds ital., 557. 

(2) Riccard. 2317; cfr. P. Rajna, Op. cit., p. 219. 

(3) Lo Zibaldone, o meglio Fiorita di varie storie, si legge in parecchi 
mss. (cfr. G. Lazzeri, Sull’autenticità dello Zibaldone attribuito ad A. Pucci, 
in questo Giorn., 54, 104 ). L’autografo è il cod. Laurenz. Tempiano 2; in 
questo ms. le citazioni da Andrea Cappellano sono a c. 142-143. Intorno a 
queste citazioni cfr. P. Rajna, Op. cit., p. 222. 

(4) Incomincia: « Una che m’ha d’amore il cor ferito »; ma intorno all at- 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
-URBANA-CHAMPAIGN - 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


111 


Pucci avesse sottocchio la versione fiorentina, anzi proprio quella 
del codice riccardiano; ma il mio venerato Maestro, quando com¬ 
poneva quelle luminose pagine su Andrea Cappellano, ignorava 
resistenza del Bruto di Brettagna , il quale fornisce degli ar¬ 
gomenti sicuri per modificare in parte le sue conclusioni. In¬ 
fatti il cantare di Bì'uto deve risalire direttamente al testo la¬ 
tino, senza l’intermediario della traduzione « fiorentina », poiché 
in molti luoghi si stacca dal testo volgarizzato (come, p. e., nel 
racconto della conquista del guanto) e aderisce strettamente e 
intimamente coll’originale latino. Andrea Cappellano dice che 
l’amica del cavaliere era una « quaedam puella » senza nomi¬ 
narla; e innominata è nel cantare la fata buona, mentre nella 
novella laurenziana ella è « la reina d’Amore cioè Venere ». Nel 
testo latino e nel cantare di Bruto nel giardino incantato non 
v’ò che un vaso solo d’argento contenente la biada per il cavallo, 
« concila residebat argenti purissima », mentre nella novella lau¬ 
renziana quell’una si moltiplica in « molte conche d’argento, 
« nelle quali erano apparecchiate profende da cavalli ». Nella 
novella in volgare è omessa tutta la descrizione del Palazzo di 
Artù, nella quale invece si diffonde per molte ottave il cantare. 
E anche il nome stesso del protagonista dà a pensare. Brito 
non è un nome proprio, è un aggettivo, reso correttamente nella 
versione laurenziana « un cavaliere brettone » e in quella ric- 
cardiana « un cavalier di Brettagna » o senz’altro « il Bretton », 
o « lo brettone » ( 1 ). 


tribuzione al Pucci non ho la sicurezza che il Rajna dimostra. Di questo 
sonetto conosco i codd. seguenti: Laurenz. SS. Annunz. 122, c. 108 [«non.]; 
Laurei)/.. Palat. CXIX, c. 133 [nnon.]; Mglb. VII. 1066, c. 13 [ntton.]; Ciu¬ 
ciano L. IV. 131, c. 697 Cod. Vicentino del Filostrato, c. 88 [ntioti.]; 

Laurenz. (ìadd. XC. 89, c. 168 b [nwott.]; Cod. Ottelio della Bibl. Com. di 
Udine, c. 178 5 [anon.]] Vatic. Barberin. lat. 3999, c. 86 [nuoti.] ; Riccard. 
1103, c. 108 [Antonio de la foresta da Firetize a ljorenzo Moschi ]; Bibl. 
Naz. di Parigi, fonda latina, nouv. acq. 1745, c. 15 [nuoti.]; cod. Laur. Tem- 
piano 2, c. 143 b. 

(1) E poi si noti che Brito non poteva essere scambiato con Bruto che 
nel nominativo, ma non nella forma volgare (= accusativo) : Brettotie. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



112 


E. LEVI 


Ma il Pucci, che era un assai debole conoscitore della lingua 
latina, ed aveva piena la testa delle infinite leggende medievali, 
fu tratto naturalmente a scambiare quell’aggettivo « brito » col 
nome proprio « Bruto » dal ricordo di quel Bruto figlio di Enea, 
fondatore del primo regno di Brettagna, che dà il nome al Roman 
de Brut di Wace. Proprio per il richiamo al Bi'uto di Wace 
l'originario aggettivo « brito » del testo del Libei' amoris fu 
sdoppiato : esso diede non solo il nome « Bruto », ma anche l’in¬ 
dicazione della patria : « di Brettagna ». 

Il Morpurgo crede che il cantare sia incompiuto: « nè si vede 
« la ragione, dice, che fece interrompere a questo punto la copia 
« per dar luogo nella faccia successiva, al poemetto seguente 
« (VApollonio) ». Ma il confronto con la fonte del cantare di¬ 
mostra che il racconto finisce proprio all'ott. XLVI con la quale 
termina il testo del codice: 

46. 

E poi con baci e con abbracciamenti 
gran pezza il tenne senz’atto fallace, 
e poi li disse: — Mo che t’argomenti 
di ritornare a tua donna verace? — 

Ed e’ le disse : — Se tu te contenti, 
i’ farò volentier ciò che ti piace — 
e ringraziolla di coraggio fino, 
poi si partì e tornò a suo cammino. 


Quae [domina] quidem de accepta 
victoria non mediocriter gaudens, Bri- 
tonem abire dimisit et ait : — De li- 
centia me a recede, carissime, quia 
dulcis te Britannia quaerit. Rogo ta- 
men, ne gravis tibi videatur abscessus. 
quia quandocunque ad haec volueris 
solus accedere loca, me semper poteri* 
habere praesentem. — Qui, osculo 
assumpto, atque ter decies repetito, 
Britanniam versus, gaudens, iter di- 
rexit ainoenum. 


Manca forse un’ottava di chiusa, con l’invocazione a Dio e la 
soscrizione del poeta. Ma, compiuto il racconto, questa ottava 
poteva venire improvvisata li per lì, secondo l’occasione e se¬ 
condo la qualità del pubblico, oppure poteva essere presa a pre¬ 
stito da un altro cantare. Le ottave iniziali e finali dei cantari 
sono formule tradizionali e convenzionali, che non hanno una 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
- - URBANA-G HAMRAKSN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


113 


connessione molto stretta col testo e vi potevano essere tolte o 
appiccicate secondo l’estro del canterino e gli umori di chi ascol¬ 
tava. Il trascrittore del codice dimenticò la chiusa o non si curò 
di registrarla perchè essa era uno dei soliti luoghi comuni del 
repertorio d’un cantastorie. E quello che dico è tanto vero, 
che anche l’ottava iniziale del Bruto di Brettagna non è affatto 
del Bruto , ma appartiene a un altro cantare, a quello di Ots- 
mirante. 

Bruto. Gismirantk. 


I’ priego Cristo padre onnipotente 
che per li peocator volè morire, 
che mi concieda grazia ne la mente 
ch’i’ possa chiara mia volontà dire. 
E’ priego voi, signori e bona gientc, 
che con efetto mi deggiate udire, 
ch’io vi dirò d’una canzon novella, 
che forse mai non l’odiste sì bella. 


I’ prego Cristo Padre omnipotente, 
che per gli peccator volle morire, 
che mi concieda grazia nella mente, 
eh’ i’ possa chiara mia voluntà dire ; 
e prego voi, signori e buona gente, 
che con affetto mi dobiate udire. 

1' vi dirò d’una storia novella, 
forse che mai noll'udiste sì bella. 


Il cantare di Bnito non ha la fine per la stessa ragione che 
non ha neppure il principio: perchè la fine e il principio erano 
formule che venivano lasciate all’arbitrio e al gusto del canterino. 
Il canterino li improvvisava o, se improvvisare non sapeva, li 
sceglieva dai suoi centoni o li prendeva da altri cantari. Bruto 
di Brettagna è importante appunto per questo, perchè ci mostra 
come si venivano traendo dai libri e componendo e, direi quasi, 
drammatizzando questi romanzi del Trecento. Noi vi sorpren¬ 
diamo il poeta a mezzo dell’opera sua di ri facitore e di rimaneg¬ 
giatore nel Liber Amorts. Quasi per attestare la sua riconoscenza 
al libro che gli stava innanzi, il Pucci una volta lo proclama il 
« fiore dei libri »: un libro che mi par degli altri il fiore (II. 2). 
I^a verseggiatura di questo cantare è frettolosa e trascurata; 
abbiamo qualche verso imperfetto e tre volte l’assonanza: tale, 
contrade (XVI), cavallo, strale (XX), amaro, gaio (XXXV). 
Anche la fretta ci spiega lo strano prestito dell’ottava iniziale 
del Gismirante e l’omissione dell’ottava finale. 

QUrrnaU storico — Sappi, a* !•. 8 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



114 


B. LKV1 


XIII. 

Madonna Llonessa. 

Di questo cantare di Antonio Pucci il codice Kirkup non 
conserva che le ultime quattro ottave, mancando prima della 
c. 49 che le reca, altre quindici carte. Fortunatamente di M. Lio- 
nessa possediamo un altro testo assai buono del Quattrocento, che 
fu stampato nella « Scelti» di curiosità letterarie » nel 1806 (1). 

Capitano, nobile signore italiano, va a Parigi a soccorrere il 
re di Francia, che è in guerra coi Saracini, e si innamora della 
regina ; ma ella, sdegnata dalle sue folli proposte d'amore, lo fa 
imprigionare. Il re, quando sopraggiunge, ordina che, in punizione 
dell’oltraggio, a Capitano siano tagliate « due oncie di lingua ». 
Madonna Lionessa, moglie del Capitano, apprende la condanna 
inflitta al marito e, spacciandosi per Salomone, vestita da uomo, 
si mette in cammino per Parigi, col seguito di un ricco e biz¬ 
zarro corteo: mille preti, cento sapienti e mille cavalieri bene 
esperti nella grammatica. A Parigi ella è ricevuta con grandi 
onori e si pone in cattedra nella « sala mastra » della reggia 
per definire le più astruse e delicate questioni. Dinanzi a lei 
compaiono il re e Capitano, tutto coperto di catene, e vien letta 
la sentenza delle due oncie di carne. Sta bene — dice Saio- 
mone — siano dunque tagliate le due oncie di lingua; « ma se 
« fie più o raen, la romperai ». Allora il re di Francia ordina 
che la sentenza sia cancellata. Dopo ciò il finto Salomone parte 
traendosi dietro il prigioniero ed in ogni città è accolto con 


(1) Cod. Riccard. 2873, c. 103*117 b ; ed. da C. Garoiolli, Madonna Lio¬ 
nessa, cantare inedito del sec. XIV, aggiuntavi una novella del « Peco¬ 
rone », Bologna, 1866, Scelta di curiosità letterarie, disp. LXXXIX. — Le 
quattro ottave del cod. Kirkup furono edite da M. H. Jackson, Ant. Pucci's 
poems cit., in Romania, XXXIX, 322. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI 


115 


feste ed onori, specialmente dai preti, che hanno la coscienza 
torbida; giunge a Roma, ove consiglia al Papa di riformare il 
clero, poi a Firenze e assiste a un consiglio dei Priori e alla 
cicalata d’un calzolaio « a ringhiera » e infine a Bologna. Du¬ 
rante il lungo viaggio Salomone domanda a Capitano s'egli sia 
ammogliato e se egli desideri che il matrimonio sia sciolto ; ma 
il buon Capitano, contrito e compunto, in nessun modo per¬ 
mette che lo si disgiunga dalla moglie che egli ama. Una notte 
egli capita nelle stanze di Salomone e invece di Salomone gli 
appare una bellissima dama nuda, che gli dice: Guarda se io 
assomiglio alla tua sposa. Capitano e Lionessa si riconoscono, 
si riconciliano e riprendono il cammino e la vita nell'amore 
più puro e perfetto. 

Al cantare di Mad. Lionessa si è raccostata più volte una 
novella del Pecorone (IV, 1), della quale il Gorra (t) diede questo 
sunto schematico: 

0 

Un mercante fiorentino molto ricco, venendo a morte, lascia eredi i due primi 
tìgli, pregando il terzo di recarsi a Venezia presso un tal niesser Ansaldo, 
ricchissimo. Giannetto, cosi si chiama il giovane, è ben accolto da Ansaldo e 
dapprima conduce vita splendida; poscia incitato dagli amici si mette in mare 
diretto ad Alessandria. Ma un mattino vede da lungi un bellissimo porto, ed 
avendo udito esser colà un costume singolare, vuol tentare l’avventura. Sceso 
al porto è gentilmente accolto dalla vedova di Belmonte, signora del luogo, 
la quale dopo averlo festeggiato durante il giorno, lo conduce a sera a dor¬ 
mire seco. 

2. — Ma prima che si ponga in letto vengono al giovane offerti da due 
damigelle vino e confetti, ch’egli accetta di buon grado, senza sospettare in 
essi un narcotico potente. Svegliatosi al mattino, gli è detto aver egli, se¬ 
condo il costume del paese, perduto ogni suo avere, perchè non era riuscito 
a far sua la donna. Per questo caso Giannetto non ha pace e tenta altre due 
volte la prova, alla fine con buon esito, si che sposa la vedova e riman si¬ 
gnore del paese. 


(1) E. Gorra, Il « Pecorone », nel voi. Studi di critica letter., Bologna, 
1892, p. 240 e segg. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



116 


E. LEVI 


3. — Ma inesser Ansaldo, non avendo avuto più mezzi per allestire la terza 
nave e d’altra parte non avendo voluto scontentar il giovane, era ricorso ad 
un giudeo, che gli aveva prestati 10000 ducati col patto che se non li avesse 
resi entro il di di S. Giovanni dell'anno seguente, egli avrebbe potuto levargli 
una libbra di carne da quella parte del corpo che gli fosse piaciuto. 

4. — Giannetto che vive in delizie colla sposa, si sovviene, il giorno fis¬ 
sato, del pericolo a cui è esposto il suo benefattore; parte in fretta, giunge 
a Venezia e trova che l’ebreo vuole ad ogni costo la libbra di carne, perchè 
il termine è scaduto, rifiutando qualunque somma. Tutti sono costernati, 
quando 

5. — entra improvvisamente un giudice sconosciuto che sentenzia che il 
giudeo ha il diritto di fare quanto chiede, ma se egli taglierà più o meno 
di una libbra di carne, o se spargerà una goccia di sangue, sarà decapitato. 
Il creditore allora preferirebbe il denaro, ma invano, e cosi parte tra le beffe 
di tutti. Il giudice chiede a Giannetto per compenso l’anello ch’egli ha in 
dito, e ottenutolo, sebbene a fatica per essere quello un ricordo della moglie, 
parte. Ansaldo e Giannetto si recano a Belnionte, dove la sposa dapprima rim¬ 
provera al marito la mancanza dell’anello, poscia ridendo confessa di essere 
stata essa stessa il giudice che aveva definito la lite. 

L’argomento di questa novella fu nobilitato e consacrato dal 
genio di Shakespeare, che ne trasse la tragedia The most 
excellent History of thè Merchant of Venire (1598). Sia nella 
novella di Giannetto come nella tragedia di Shakespeare sono 
intrecciati due diversi motivi leggendari, l'astuzia della donna 
per respingere gli innamorati [1-2] e l'obbligazione verso il 
giudeo col conseguente giudizio dell’oncia di carne [3-5]. Nel 
cantare di M. Lìonesm invece della prima leggenda non è 
traccia alcuna e perciò mi pare che sia da escludersi subito ogni 
parentela colla novella del Pecorone e con la famiglia di essa. 
Della novella del Pecor. furono rintracciate moltissime fonti 
medievali e tra tutte importanti due novelle comprese nel Do- 
lopathos (nov. 4*) e nei Gesta Romanorum (nov. 10*), due po¬ 
polarissime raccolte di temi leggendari. In tutte le versioni che 

0 

precedono la novella del Pecorone e la seguono fino alla tra¬ 
gedia di Shakespeare, lo spunto essenziale del giudizio è il pre- 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


117 


stito del denaro e la conseguente obbligazione (1). Invece nel 
cantare il taglio di quell’oncia di carne non è inflitto come com¬ 
penso di una somma tolta a prestito e non resa, nè come sod¬ 
disfazione di un’antica promessa, ma come pena di un discorso 
oltraggioso tenuto alla regina. Abbiamo cioè qualche cosa che 
ci ricorda il vecchio motivo, ma non ne ha nessuno dei carat¬ 
teri nè alcuna delle linee essenziali. Si osservi poi che mentre 
in tutte le altre novelle l’oncia di carne può essere tratta da 
qualunque parte del corpo, nel coniare essa deve essere tratta 
dalla lingua per osservare rigidamente il contrappasso ; la lingua, 
che ha peccato, sola debba essere punita. 

Nello scioglimento dell’azione il cantare coiucide con la no¬ 
vella e con le fonti di essa : infatti in tutti i testi, latini e vol¬ 
gala, la sposa stessa del condannato, travestita da giudice, si 
presenta alla corte e impone che la imbarazzante condanna sia 
eseguita alla lettera, ma a patto cbe, se si verserà una goccia 
di sangue o si taglierà dalle carni una parte maggiore o minore 
di quella stabilita uel contratto, ne segua la morte del trasgres¬ 
sore. Non v’è dubbio che questa parte della leggenda, a diffe¬ 
renza dell’altra, è di origine occidentale. Mi sembra anzi at¬ 
traentissima l’ipotesi del Simrock (2) cbe in questo aneddoto sia 
da scorgersi uno di quegli exempla , coi quali gli antichi glos¬ 
satori solevano spiegare le disposizioni giuridiche latine e ger¬ 
maniche e mettere come in azione la filosofia della legge romana 
e della legge consuetudinaria. L’antico diritto romano ammette la 
vendita e la morte del debitore insolubile, e nel caso che i credi¬ 
tori siano parecchi, la « sectio corporis » del delinquente in parti 
proporzionali ai vari debiti. E una delle leggi delle 12 tavole pre¬ 


scrive in proposito: Si pluribus addictus sit (se sia di più d’uno 


(1) Cfr. G. Chiarini, Le due leggende del « Mercante di Venezia », nella 
N. Antologia, 3* Serie, voi. XXXVIII (1892), pp. 399-431. 

(2) K. Si m rock, Die Quellen dee Sìtakespeare*, Bonn, 1872, voi. I, pa¬ 
gine 221 e segg. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



118 


E. LEVI 


debitore), par tea secatilo, si plus minusoe secuerint se frande 
est. Anche nell'atteggiamento della frase siamo ben vicini al giu¬ 
dizio salomonico del cantare : « ma se (ìe più o men , la rom- 
« perai ». « La leggenda rappresenta la vittoria della Aequitas 
« sopra il Jus stridimi , che è la sostanza essenziale di tutta la 
« storia della legge romana. Il giudice non può piegare la stretta 
« lettera della legge contro il creditore, ma egli può sollevare 
« una opposizione contro la sua opposizione, piegando lui ad un 
« Jus strictissimum , e cioè in favore della Aequitas , la quale 
« come ogni più recente principio legale, si afferma nella forma 
« di una Exceptio , annullando la sostanza della vecchia legge, 
« senza formalmente distruggerla » (i). Questo conflitto tra il jus 
strictum e Vaequitas e la vittoria dell’ aequitas per mezzo del- 
T « exceptio » del jus strictissimum che uccide lo strictum , de¬ 
vono essere stati rappresentati con esempi e con aneddoti dalla 
cattedra e negli scritti dei giuristi del Medio evo. L’esempio della 
carne e del sangue era già additato nella legge delle XII tavole: 
non mancava che l'invenzione del giudizio perchè la novella fosse 
già perfetta. 

Nel cantare l'autore doU’arguta sentenza è Salomone. Fare del 
giudice uno pseudo-Salomone doveva essere uu’idea piana e na¬ 
turale, poiché a Salomone nei racconti biblici e leggendari si 
attribuiscono molti altri giudizi analoghi; per esempio, quello 

del bambino disputato da due donne e quello dell'eredità da di- 

♦ 

vidersi tra il Aglio spurio e il Aglio legittimo (2). Credo dunque 
che già in tempi assai antichi esistesse una novelletta giuridica, 
una specie di exemplum ad uso dei commentatori, della quale 
era protagonista del giudizio Salomone ed argomento la sen- 


(1) Così K. Elze, Essay on Shakespeare, London, 1874, p. 96, citato dal 
Chiarini, Op. cit., p. 417. 

(2) Sercambi, nov. 40 e 41 (Novelle inedite di G. Sercatnbi tratte dal cod. 
Trivulz. 193 da R. Rknier, Torino, 1889, p. 153 e segg.); G. Cortese-Pagani, 
Il • Bertoldo » di G. C. Croce e i suoi fonti, negli Studi medievali, voi. Ili 
(1911), p. 534. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
- URBANA=CHAMPÀIGN~ — 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


119 


tenza che obbligava a versare un’oncia di sangue in seguito ad 
un debito dianzi contratto. 

Nel cantaro abbiamo la contaminazione dei due racconti e dei 

• • 

due motivi leggendari: i° il giudizio salomonico dell’oncia di 
sangue; 2° il giudizio che sottopone alla pena della mutilazione 
quella sola parte del corpo che ha fallato, cioè la lingua che ha 
pronunciate alcune folli parole. Dell’aneddoto giuridico è conser¬ 
vata nel cantare la sentenza, ispirata alla ferrea logica del 
« jus strictum », sono omesse tutte le circostanze accessorie, 
il debito e il patto che ne segue tra debitore e creditore. Ri¬ 
spetto alle novelle del Dolopathos e dei Oesta Romanomm , 
le quali spiegano con un lungo racconto avventuroso anche le 
origini di quel debito, il cantare si presenta ancor più semplice 
e sommario; infatti dell’amore del debitore verso una fanciulla 
e delle prodigiose astuzie di questa per sottrarglisi, in M. Leo¬ 
nessa non è traccia alcuna. 

Resta da risolvere l’ultimo quesito: il Pucci ha tratto il can¬ 
tare da una novella in cui già i due motivi leggendari erano 
frammischiati e atteggiati come il cantare ci mostra, oppure 
quella composizione fantastica di elementi disparati è opera sua 
originale? Ebbe il cantare di Af. Lioncssa una sua «fonte» pre¬ 
cisa come il cantare di Bntto, oppure il poeta lavorò liberamente 
sulla trama di vaghe reminiscenze lontane? Ardua questione, 
poiché i testi leggendari che ho indicato sono troppo remoti dal 
cantare e la lacuna è troppo vasta per essere dominata e per¬ 
corsa dal nostro pensiero. La lettura del cantare suscita però 
l’impressione che il Pucci qui sia assai più indipendente dalle 
« fonti » scritte, che non negli altri cantari. Infatti la parte de¬ 
dicata al racconto della leggenda è nel cantare assai modesta; 
la parte più considerevole è dedicata ai particolari bizzarri della 
scandalosa vita del clero di Parigi (ott. XXIX), di Roma (XXXVI), 
di Siena (XXXIX), di Firenze (XL) e ad una arguta satira dei co¬ 
stumi politici fiorentini. Siamo nel consiglio del comune di Fi¬ 
renze (ott. XLI e XLII): un calzolaio sale alla ringhiera e tiene 
una concione per dimostrare che i donativi richiesti dagli eccle- 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



120 


E. LEVI 


siastici si possono benissimo risparmiare perchè Dio, che è ricco 
a bizzeffe, non ha certo bisogno dell'elemosina dei fiorentini. 
Tutti i consiglieri, toccati nel punto debole, l'avarizia, sorgono 
in piedi e prorompono: « Egli ha ben detto ». Per queste argute 
rappresentazioni delle debolezze umane, delle usanze politiche 
cittadine, dell’ipocrisia del clero e della vanità della vita, il can¬ 
tare assume un’aria sottilmente canzonatoria e si illumina del 
lampo d’un rapido sorriso di beffardo scetticismo. Questa comi¬ 
cità è originale e caratteristica del Pucci. Anche il dato fonda¬ 
mentale del racconto, il travestimento d'una donna e le avven¬ 
ture di essa sotto le mentite spoglie virili, è uno dei motivi più 
cari alla piacevole e sorridente musa del Pucci; lo ritroviamo 
con qualche variante accessoria nel cantare della Regina d’O- 
riente , dove una fanciulla travestita giunge persino a prendere 
moglie e a far girare la testa ad altre donne. 

Per tutto questo penso che di « fonte » scritta di M. Lionessa 
non sia il caso di parlare. M. Lionessa è una delle più libere 
creazioni della fantasia del Pucci in quel periodo della piena e 
calda maturità, al quale pure dobbiamo la Regina (l’Oriente. 
Per la singolarità dell’argomento, per le vicende dell’azione e 
per la placida arguzia che vi si diffonde, M. Lionessa deve con¬ 
siderarsi l'immediato antecedente di quel capolavoro della nostra 
letteratura che è il poema della Regina (l’Oriente. 

Nel cantare di M. Lionessa si citano • molti nomi storici e 
geografici precisi, per mezzo dei quali il cantastorie si illudeva 
di conferire alla leggenda l’aspetto d una « vera istoria ». 11 reo 
condannato alla mutilazione della lingua si chiama Capitano; la 
moglie sua, madonna Lionessa di Milano « che madre fue d'Az- 
« zolino Romano » (I, 3). Evidentemente si allude ad Ezzelino 
da Romano, che fornì tanti altri aneddoti leggendari alla no¬ 
vella e alla poesia antica; se non che la madre di Ezzelino non 
si chiamava Lionessa, ma Cecilia da Baone. Ella fu veramente 
una tragica donna ed ebbe davvero nella sua vita una storia 
leggendaria, ma assai diversa da quella del cantaro. Rimasta 
orfana, fu affidata a un tutore, che la promise in isposa a Ge- 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
- UR B M T A KHAMPA1GN- 


I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


121 


rardo da Camposampiero. Ma Ezzelino I la rapì e la diede in 
isposa al figliuolo Ezzelino li il monaco; e « un di, mentre Ce- 
« cilia si recava a Padova, fu appostata dallo schernito Geiardo, 
« che le fece vergogna per odio contro Ezzelino. Questi la ri- 
« pudiò » (1). 


XIV. 

La regina d’Oriente. 

Senza essere « una delle più originali creazioni dell’umana 
« fantasia », quale fu proclamata (2), la Regina (VOriente ò dav¬ 
vero uno dei fiori più freschi e vividi della letteratura italiana. 
« Questo è il fior della leggenda », la proclama l’artefice stesso 
in un momento di legittimo orgoglio ( Regina , III, 1, 8). E infatti 
per ben cinque secoli il nostro popolo, mentre si mutavano e 
rimutavano usanze e gusti, sfiorivano e tramontavano le infa¬ 
tuazioni accademiche e scolastiche, il nostro popolo non si stancò 
mai di udire cantare le belle ottave sonauti della Regina d’o¬ 
riente e nei suoi libri andò ricercando con curiosità sempre viva 
e inesausta le mirabili avventure della regina, della segretaria 
Berta, della castellana della Spina e del gran balbano del re 
Macometto, Ronciglione. 

Guglielmo Libri asserì che « très probablement la Regina 
« d’Oriente est le plus ancien poème chevaleresque qu’on ait 
« écrit originairement en Italie « (3). È un errore. Non vi è 


(1) F. Zamboni, Oli Ezzelini, Dante e gli schiarì, 2 a ediz., Firenze, 1897, 
pp. 116-149. Lo Z. aggiunge che la tragica donna fu celebrata « nei romanzi 
e nelle canzoni popolari *. 

(2) Cosi A. Bonu coi, H istoria delia reina d'Oriente di Anton Pucci fio¬ 
rentino, Bologna, 1862 (Scelta di curiosità letter., disp. XLI), p. 9. 

(3) Catalogue de la Biblioth. de M. />.***, doni la vente se fera le lundi 
28 juin 1847, ecc., Paris, 1847, p. 172. — Anche F. Zambrini, Le opere vol- 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
- URBANA -G H AMPAIGN 


122 


E. LEVI 


dubbio alcuno clic questo cantare è degli ultimi di Antonio Pucci, 
perchè l’arte del banditore fiorentino in questa più che nelle 
opere precedenti si rivela piena, cosciente e matura e perchè 
un’esplicita dichiarazione del poeta stesso (1,2, 1) ci richiama 
agli anni dell’estrema vecchiezza : 

Avendomi io, signor, posto nel cuore 
di non perder più tempo a far cantare, 
un libro che mi par degli altri il fiore, 
cosi leggendo mi fè innamorare. 

Quando si accingeva a quest'opera, Antonio Pucci aveva dunque 
compiuti tutti gli altri cantari ed aveva già smessa l’idea di ci¬ 
mentarsi ancora con gli altri cantastorie più freschi di spirito 
e di giovanile ispirazione. La Regina (l'Oriente deve essere stata 
composta verso il LISO, ed intorno a quest'anno ci richiamano 
alcune importanti testimonianze della sua fortuna. In quella enu- 
merazione delle più celebri donne della leggenda che è nel can¬ 
tare della Sala di Malagigi (1380-1400), in quel medesimo passo 
(ott. XX) dove si citano la donna del Vergili e la Pulzella gaia, 
è ricordata anche la regina d’Oriente: 

Eravi Marta e Maria Maddalena, 
la pulzella Gaia col viso piacente, 
appresso a lei la Regina d’Oriente. 

Gregorio Dati, un cronista fiorentino dell’estremo Trecento 
(nacque il 15 aprile 1362 e mori il 17 settembre del 1435), de¬ 
scrivendo la guerra tra Antonio della Scala, signore di Verona, 
e Francesco il Vecchio da Carrara, signore di Padova (1383-84), 
e la sfolgorante ricchezza de’ loro apparecchi, esce a dire: 

Ciascuno di loro si mise in punto con uno sforzo e spendevansi danari assai, 
intanto che si disse allora per favola che l’apparecchio di quello da Verona 


gari a stampa 4 , col. 846, ripete la medesima notizia: € Egli è probabilmente 
< il più antico poema di cavalleria che originariamente venisse scritto in 
« Italia ». 




Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


123 


era simile per nobiltj\ a quello della Reina d’Oriente. Non 
aveva misura la spesa e l’esercito e le carra e il carriaggio e gli armamenti, 
che non si ricordava simili di gran tempo a drieto (1). 

Le carra, di che parla Gregorio Dati, sono precisamente quelle 
« coverte a scarlatto », tirate da ambiatiti e forti destrieri, che 
stilano nelle ottave 24-27 del primo cantare; « l’apparecchio » 
è il « trionfale fornimento » della regina, che valea più di sette 
Rome. La Regina (l'Oriente, continuò a leggersi con pari fer¬ 
vore ed uguale fortuna nel Quattrocento e nel Cinquecento. 
Della sua diffusione sono buona testimonianza i moltissimi codici, 
che corsero tra le mani callose di vinattieri, di artigiani e d’uo¬ 
mini d’arme, come le chiose e le note iniziali ci raccontano, e 
le molte edizioni che l’arte ancor bambina della stampa am¬ 
manili alla sempre crescente curiosità popolare. La serie delle 
stampe si apre con una fiorentina del 1483 ; e forse continua an¬ 
cora ai giorni nostri (2). Un passo del Ma Iman ti le r acquistato 


(1) L. Pratesi, L'« Istoria di Firenze » di Gregorio Dati dal 1380 al 1403, 
illustrata e pubblicata, Norcia, 1902, p. 25. Evidentemente il Pratesi prende 
un abbaglio quando annotando il passo suppone « che qui si alluda a Cleo¬ 
patra, regina d’Egitto >. 

(2) I codici e le stampe sono enumerati nel mio Fiore di leggende, pp.364-367. 
Ai manoscritti si aggiunga ora un codice cartaceo, ch'eia in vendita a Livorno 
nel 1914 (cfr. Catalogo della collez. d'arte, e d'antichità appartenuta al pittore 
prof. Augusto Volpini di Livorno [Livorno, 1914], p. 110, n. CCCLXXXXVTI) 
ed è ora entrato a far parte delle mie collezioni private. Alle stampe si ag¬ 
giungano le seguenti : I. La Reoina | d’Oriente. || Opera di molto esempio | 
a ciascheduna persona. — In Siena, s. a., di [22] carte: 185 ott. Ha una si¬ 
lografia (c. 1“) che « rappresenta una donna con la corona in testa, che tiene 
« le mani accoppiate e col braccio sinistro regge nn bastone, forse uno scettro, 
« portante in cima una minuscola bandiera, nella quale si vede una croce ». 
Una precisa descrizione bibliografica ne diede L. Matteucci, Descrizione ra¬ 
gionata delle stampe popolari della Governativa di Lucca, n. XXXIII, nel 
Libro e la stampa, N. S., anno V, p. 72. — II. Storia | della | Regina d’O¬ 
riente | Dove si tratta di molti apparecchi | Trionfi, e Feste tra valorosi | 
Cavalieri | con bellissime Figure adornata. — Lucca, s. d., per Frane. Mare- 
scandoli a Pozzorelli (in-16°). Le varianti di questo testo rispetto al codice 
ei-Volpini sono date nel margine di quel manoscritto. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
--URBANA-CHAMPAIGN 



124 


E. LEVI 


(li, 45) ci attesta che alla fine del Seicento (1676) i contadini 
toscani ne sapevano ancora a memoria, tutte quante, le ottave 
dei quattro cantari: 

Tre dì euonàro a festa le campane 
ed altrettanti si bandì il lavoro; 
e il suocero, che meglio era del pane, 
un uom discreto ed una coppa d’oro, 
faceva con gli sposi a scaldamano, 
talora a Mona Luna e Guancial d’oro, 
e fece a' paggi recitare a mente 
Rosana e la Regina d’Orlente. 

Della rapida, larga e durevole fortuna del suo poema il Pucci, 
ch’era un esperto conoscitore dell’anima del popolo, ebbe il pre¬ 
sentimento preciso e sicuro; e in molti luoghi dei quattro can¬ 
tari lo appalesa e se ne gloria. La leggenda è cosi bella, egli 
dice (I, 2) « ch’io vi prometto ch'a la vostra vita, si bella istoria 
« non avete udita »; tanto bella si era, che la sua stanca fan¬ 
tasia, ch’egli credeva ormai spenta per sempre, ebbe un guizzo 
e se ne ravvivò con mirabile ardore. Due volte il Pucci accenna 
a questo libro cosi interessante e commovente, che gli diede 
l’ispirazione e incitamento all’estremo lavoro della sua vita; nel 
primo e nel quarto cantare: 

se è vero ciò che conta un libro antico (1,27.8). 
se ’l libro non erra... (IV, 34. 6). 

Qual’era dunque questo libro? 11 Wesselofsky, il solo stu¬ 
dioso che si sia finora occupato di questo argomento (1), inco¬ 
minciò la ricerca negando senz’altro che quel libro sia mai esi¬ 
stito. Quegli accenni, egli dice, hanno lo stesso valore delle 


(1) A. Wksselop8KV, Le tradizioni popolari nei poemi d’Antonio Pucci, 
nell 'Ateneo italiano, Giornale di scienze, lettere ed arti, voi. I (1866), pa¬ 
gine 225 e segg. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN - 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


125 


citazioni di Turpino, che snocciola l’Ariosto; sono spiritosaggini 
e ghiribizzi. Ma no; leggiamo le prime ottave del poema e la 
serietà solenne e ispirata dell’artefice in cospetto della sua crea¬ 
zione ci convincerà subito che non è da pensare a una celia 
grossolana. È un soffio di entusiasmo commosso quello che sale 
da questa confessione: 

avendomi io, signor, posto nel cuore 
di non perder più tempo a far cantare, 
un libro, che mi par degli altri il fiore, 
cosi leggendo mi fé’ innamorare, 
che poi rimato l’ho, per vostro onore. 

La betta è fuor di luogo. Nè vedo perchè invece che « nel 
libro », un libro classico o un libro romanzesco, si debba cer¬ 
care senz’altro la fonte della leggenda nelle tradizioni orali e 
nelle novelline del folk-lore. L’argomento dei quattro cantari si 
può scomporre in pochi elementi essenziali. L’imperatore di Roma 
si innamora per fama della regina d’Oriente e per attirarla nella 
sua città la fa citare dinanzi al Papa perchè si difenda da varie 
accuse. L’imperatrice, complice dei tristi disegni del figlio, chiude 
la regina con lui in una stanza; ma le dame d’onore della regina, 
che sono dei turchi giganteschi travestiti da donna, sgominano 
gli sgherri imperiali e la regina stessa con un colpo di spada 
uccide l’imperatrice. Dopo qualche tempo la regina dà alla luco 
una bambina ed ella imprudentemente annuncia che il neonato 
è un maschio e poi lo fa allevare come tale. L’imperatore, vo¬ 
lendo dare marito ad una sua figlia, pensa all’erede della co¬ 
rona d’Oriente, e questi, benché per natura si senta incapace 
di diventare lo sposo della principessa, per amore di pace ac¬ 
cetta la proposta. La prima notte di matrimonio ella riesce a im¬ 
pietosire la sposa e ne ottiene il segreto riguardo a quel loro caso 
singolare; ma alla fine l’imperatore, per la delazione d’uua donna, 
donna Berta, apprende la verità e vuol sincerarsene cogli occhi 
suoi. Fa bandire una caccia e preparare un bagno, dove il re 
verrà a spogliarsi dopo le fatiche venatorie. Il re, messo sul- 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



126 


E. LEVI 


l’avviso da un cortigiano, si getta in un foltissimo bosco e prega 
Dio che gli tolga senz’altro la vita; ma ecco, gli appare un cervo 
che reca tra le corna un'immagine angelica. L'angelo lo con¬ 
sola e gli annuncia che egli è d’ora innanzi maschio « ed ha ciò 
« che bisogna ». Quand'egli poi si spoglia per entrare nel bagno, 
fa cosi bella mostra di sù, che molte dame se ne innamorano e, 
tra le molte, la donna della Spina. Ella si apposta in una rocca 
e, quando il re passa por ritornare in Oriente, lo fa prigioniero. 
La regina accorre con un esercito, pone l'assedio alla rocca e 
libera il marito, traendo prigioniera la donna della Spina. Ma 
costei nel fondo del suo carcere riesce a corrompere un guar¬ 
diano e per mezzo di lui ottiene la difesa del re di Francia. Ap¬ 
pena ella è libera, va a Roma alla corte di Maometto e dopo 
molti altri incantesimi e stregonerie, fa che Ronciglione, gran 
balbano dei maomettani, accorra nella capitale del regno d’O- 
riente a porvi lo sgomento e lo scompiglio. Ma la regina d’Oriente 
invoca l'aiuto di Dio e, aH’udire le sacre preci, l'orribile R 011 - 
ciglione scompare. 

Questa a larghissimi tratti la bizzarra trama del poema, che 
riesce oltremodo attraente non solo per la ricchezza inesauribile 
delle trovate fantasiose, ma anche per l'ironia fine e sottile con 
la quale il poeta tratta i suoi eroi, la divinità, la Vergine, i Santi 
e persino i lettori. V’è nella Regina d’Oriente più che una comi¬ 
cità casuale e fuggevole, come negli altri cantari, una comicità 
profonda ed organica, connessa con la creazione stessa del poema. 
Ironica è sin la scelta della favola, la quale è assurda, para¬ 
dossale, sfacciatamente inverosimile e spudoratamente empia: 
« una fanciulla vestita da uomo, presa per tale, costretta a con- 
« trarre un matrimonio ed a rivelare il suo sesso alla compagna, 
« che di sposa diventa sorella; la prova del baguo, che il padre 
« della fanciulla maritata vuol fare al creduto sposo, risoluto a 
« condannarlo a morte se natura di femmina vi trova » (1). 


(1) A. Wesselofsky, Op. cit., p. 225. 


Digitized by 



» 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


127 


La comicità piena, squillante, che non si arresta nè alla soglia 
della reggia, nè a quella della chiesa, lo spirito beffardo, irre¬ 
quieto e irriverente conferiscono a questo cantare l’aspetto e 
il pregio del più importante antecedente del Margarite. 11 
Wesselofsky, trascinato da questo impeto di irrefrenabile co¬ 
micità che si sprigiona dalle ottave della Regina d'Oriente, 
vorrebbe riconoscere una burla anche nella grave e patetica 
citazione del « libro antico », fonte di tutta la favola, che è al 
principio d’ogni cantare. Piuttosto che la riduzione in rima d’un 
romanzo in prosa o d'un testo latino o francese, nella Regina 
(l'Oriente egli ravvisa lo svolgimento bizzarro e ghiribizzoso 
d’un diffusissimo motivo della poesia popolare: quello conosciuto 
col nome di « Ragazza guerriera » (1). Una fanciulla si traveste 
da soldato e combatte in luogo del padre suo; il figlio del re 
se ne innamora, perchè gli sembra di riconoscerla per donua. 
Ella sfugge agli accorgimenti che il principe e la regina pon¬ 
gono in opera per scoprire il suo vero sesso e alla fine della 
guerra ritorna a casa traendosi dietro il suo innamorato, sempre 
fedele durante le più strane avventure. Nella Ragazza guer¬ 
riera abbiamo il motivo della Regina (l’Oriente rovesciato; 
ivi una donua si traveste da uomo ed è amata per donna, qui 
la fanciulla travestita è desiderata per quel che pare e non per 
quello che è. « Una transizione organica » tra le due forine della 
favola s’ha, dice il Wesselofsky, in un canto serbo; di una fan¬ 
ciulla, travestita da uomo, si innamora la figlia del re, che la 
sposa. Il finto guerriero si trova in grave imbarazzo, di fronte 
all’ardente innamorata; ma finalmente ella muta sesso « senza 
però che il miracolo intervenga a risolvere l'intricata questione ». 


(1) Se ne hanno tre versioni piemontesi edite da Costantino Migra. una 
portoghese ed. da R. Kohler-F. Wolf, Proben Portugiesische-r unti Votala- 
nischer Vólks-Romanze», nello Jahrbuch fiir romantiche utul engìitche 
Litterntur, voi. Ili, n. XII, e infine una albanese ed. da J. G. von Hahn, 
Griechischc und albanesixhe Miirchen, Leipzig, 1864, n. X e n. CI. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



128 


E. LEVI 


Digitized by 


Le relazioni tra queste novelline e il cantare sono così vaghe 
ed incerte che non so cogliere un nesso qualunque che ve le 
rannodi. Del canto serbo, che è quello che più si ravvicina alla 
Regina d’Oriente, ignoro la storia, nè vedo quale buon vento 
l’abbia potuto arrecare tra via delle Fornaci e Rengyo. E mi 
sembra davvero inutile ed assurdo l'interrogare quei lontani pa¬ 
stori della Drina e della Sava, quando un racconto di simile ge¬ 
nere si trova già consegnato nelle pagine d’un libro straordinaria¬ 
mente noto tra noi, le Metamorfosi di Ovidio (IX, v. 669 e sgg.). 

Racconta Ovidio: Ligdo, cittadino di Festo, aveva minacciata 
di morte la sposa, Teletusa, se ella avesse dato alla luce una 
femmina. Per sfuggire alla condanna la moglie annuncia che la 
figlia, che ora le è nata, Ifi, è un maschio e la fa allevare come 
tale. Tredici anni dopo Ifi viene fidanzato a Janta. Invano, con 
ogni pretesto, Teletusa cerca di differire le nozze; allorché queste 
stanno per celebrarsi, ella prega Iside che operi il miracolo di 
convertire Ifi in un maschio. E il miracolo, con soddisfazione di 
tutti, si compie. La popolarità di Ovidio era cosi larga nel Medio 
Evo (1) che l’imbarazzo nasce piuttosto dalla ricchezza della 
letteratura ovidiana, che il Pucci potè conoscere, che dalla scar¬ 
sità delle notizie. Al tempo del Pucci il volgarizzamento più 
diffuso delle Metamorfosi era ancor quello composto da Arrigo 
Simintendi da Prato prima del 1333 (2). Qualche anno avanti 
la composizione della Regina d'Oriente un altro volgarizzatore, 
anzi un vero « avventuriero del classicismo volgarizzante del 
« tempo », Giovanni dei Bonsignori (1370), aveva rinfrescata la 
materia delle tradizioni ovidiane « et raccolte in breve sermoni* 
« le historie et fabule del libro magiore del poeta Ovidio ditto 


0) Cfr. K. Bartscu, Albrecht von Haìberstadt und Ovid im Mittelalter. 
Leipzig, 1861; M. Manitics, Beitràgezar Gesch. des Oridirn and anderen rii- 
mischen Schriftsteller im Mittelaìter, nel Philologm, Suppl. VII, 4; A. Gkaf, 
Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, Torino, 1883, II, 
pp. 296 e segg. 

(2) C. Marchesi, Volgarizzamenti ovidiani nel secolo XIV, in Atene e 
Roma, XI (1908), p. 275 e segg. 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
- URBANA-OUAMPAIGN - - - - - 



I GANTABI LEGGENDARI ITALIANI 


129 


« metamorphosoos » (1). Senonchè la leggenda ovidiana appare 
troppo scheletrica e sommaria di fronte alla ricchissima favola 
del cantare; e troppo gigantesca sarebbe stata l’opera della fan¬ 
tasia del Pucci, se soltanto da quei pochi e frammentari elementi 
ovidiani egli ne avesse tratto l’intero romanzo, con uno slancio 
e con uno sforzo potente di creazione. E poi il Pucci ci parla di 
« un libro »; nè tale potea dirsi il breve episodio di Ligdo e Te- 
letusa. In quale componimento medievale confluirono dunque le 
acque della tradizione ovidiana o meglio, se così si vuole, quelle 
della leggenda preovidiana, di cui Ovidio stesso si fece poi bandi¬ 
tore neH’occidente (2)? Per quali vie, segrete o palesi, non so; ma 
la bizzarra novella della tramutazione dei sessi, attraversando 
il Medio Evo, giunse nel secolo XIII ad arricchire i tesori fan¬ 
tastici della giulleria ed i troveri ne trassero un poemetto, la 
Chanson d’Ide et Olive. La Chanson d’Ide costituisce uno dei 
complementi alla Chanson de Huon de Bordeaux conservati 
in un prezioso manoscritto torinese (3) e messi insieme da due 
troveri della seconda metà del Duecento, piccardo l’uno, d’ignota 
patria il secondo (4). Ecco, in due parole, di che qui si tratta. 


(1) C. Marchesi, Le allegorie ovidiane di Giov. del Virgilio ; le ‘alle¬ 
gorie ’ di Giovanni de' Bonsignori, negli Studi romanzi, Y r I (1908). 

(2) L’episodio ovidiano corrisponde a quello di Galateia, raccontato da Ni- 
candro. Galateia era moglie di I.ampros; costui l’aveva minacciata di 
morto, qualora ella avesse data alla luce una femmina. Nasce una bimba e 
Galateia la fa allevare come se fosse un maschio, sotto il mentito nome ma¬ 
scolino di Leukippos. Dopo svariati avvenimenti, la divinità tramuta Leu- 
kippos in un maschio. I testi di questa leggenda sono cit. in Pavlv’s Beai- 
Enciclopddie der Class. Altertumswissenseliaft i , VII, I, 518. 

(3) Ms. L. II. 14; cfr. Esclannotule, Clarisse et Fioretti, Yde et Olive, 
Drei Fortsetzungen der Chanson von Huon de Bordeaux nach der ein- 
zigen turiner Handschrift zum Erstenmal verOflfentlicht von Max Schweiqkl, 
Marburg, 1889 [Ausgctben unti Abhandlungen aus dem Gebietc der Boni. 
Phtlologie, veróflf. von E. Stengkl, LXXXITIJ. 

(4) Secondo i risultati delle ricerche dello Schweigel si devono al primo 
poeta: Eselarmonde, Clarisse et Florent e la « C'hanson d’Yde * fino al 
v. 7644 (§§ 59-61); al secondo l’ultima parte di Yde et Olive (v. 7645-8420), 
che comprende anche la • Chanson de Croissant ». 

Giornale storico — Suppl. n° IO. 9 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



130 


K. LEVI 




Digitized by 


Clarisse, bellissima regina di Aragona, muore dando alla luce 
una bambina; il marito Florens, che Tania teneramente, « et nuit 
« et jour pour sa femme souspire ». Passano quattordic’anni ; 
la bimba è ora una meravigliosa fanciulla e principi e baroni 
accorrono da ogni parte per chiederla in isposa. Ma un giorno 
di maggio Florens raccoglie la baronia ed annuncia la sua in¬ 
tenzione di rimaritarsi. La gioia dei vassalli si muta repentina¬ 
mente in orrore, quando Florens addita nella sua figlia la sua 
fidanzata; invano i baroni coivano di distogliere il vecchio da 
cosi infame proposito, invano si appellano alle leggi divine. 

6505 Florens a dit: — Leceour pautonnier! 

N’est hoin vivans, qui m’en puist traire arrier. — 

Yde decide di fuggire e, approfittando della confusione per 
Tarrivo di Desiier de Pavie, si traveste da uomo e cavalca per 
i boschi; giunta a Barsillon, si colloca come scudiero al servizio 
di un cavaliere tedesco, che è in cammino per Roma. Lungo 
la via la comitiva viene assalita da settemila briganti e tutti sono 
uccisi, tranne Yde, la quale poco dopo capita in un accampa¬ 
mento di quei ladroni e chiede da mangiare. I ladroni la vo¬ 
gliono trattenere prigioniera, ma ella fugge dopo aver abbattuto 
il loro capo in singolare tenzone. Giunta finalmente a Roma, 
Yde si presenta a Ottone e gli narra le sue ultime avventure ; 
e l’imperatore le accorda'l’ufficio di scudiero della sua bella 
figliuola Olive. Intanto il re di Spagna, offeso perchè Olive ha 
respinto la sua richiesta di nozze, con infinito stuolo di armi¬ 
geri si accampa sotto Roma; Yde compie prodigi di valore e 
sgomina il nemico. In premio di tanto eroismo Ottone decide 
di offrire a Yde la mano di Olive; raduna i baroni, annuncia 
le nozze e tiene corte bandita per un mese. Yde segretamente 
piange la sua sfortuna, perchè teme di essere condotta a morte, 
appena si sappia l’inganno del suo travestimento. Alla fine giunge 
il supremo momento: 

... Olive mainnent en la cambre pavé? 

7124 Coucie lont et puis lont enclinée 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


181 


Es vous Yd&in qui vient toute esplourée 
Le cambre a bien verouille et fermée 
Puis vint au lit u estoit sespousée 
Si lapella coìement a celée 
Ma douce amie et loiaus marYée 
La botine nuis vous soit anuit donnée 
Car jou larai mont gries si con jou bée 
7132 Jou ai I mal dont jai ciere tourblée. 

| • 

Con la scusa di questa malattia, Yde riesce a differire di altri 
quindici giorni Listante della rivelazione. Ma alla fine Yde è 
obbligata a raccontare alla sposa coni’ ella sia fanciulla e non 
uomo, com’ella sia sfuggita alle sozze brame di Florent e le 
chiede ch’ella serbi il segreto. Inutile precauzione; un garzone 
celato ha udito tutto il discorso e va a riferirlo ad Ottone. Costui, 
furibondo del tratto, decide di sorprendere a ogni costo il vero 
e medita l’artificio del bagno : 

7204 I baing f&it f&ire tn la sale pauée 
Dedens entra puis a Yde mandée 
Et elle i vint li rois la conmandée 
— Despouillés vous sans point de dcmorée 
Venés o moi baignier ensi magrée — 

Cele respont qui fu espflentée. 

[219] 

— Biax sires rois dit Yde au cors mollé 
Et sii vous plaist de chou me desportai. 

Li rois respont tous les dras osterés 
Sii est ensi que on ma deviset 
Je vous ferai ambe II embraser — 

Yde trambla Olive a souspiré 
A genouillons a Diu merci cric* 

Li rois a tout son barnage ntandé 
Devant aus tous ceste cose a conté 
Tout em plourant a cascun escrié 
— Seignour dist il que conseil me donrés 
Fai les ardoir cascuns li a crìé 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



132 


B. LEVI 


I 


Digitized by 


Ensi con Yde a de paour tramblé 
Devers le del descent une clartés 
Ce fu una angles Dir le fiat avaler 
Au roi Oton a dit tout cois estés 
Jesus te mande li rois de niaiaté 
Que tu te baignes et ai lai chou ester 
C’ar jou te di en bone venti* 

Bon cbevalier a u vassal Ydé 
Dix li envoie et donne par bonté 
Tout chou cuns hom a de suinanité 
Lai le garchon diat li angles aler 
Il YOU8 avoit dit voir mai cest passe 
Hui main iert feme or est uns hon carnea 
Dix a partout poissance et pOesté 
Otes bona rois dedens vm jours venrés 
En lautre siede de cestui partirés 
Et vostre tille auoec Ydain laires 
7239 J fil aront Croissans iert apellés. 

Cosi infatti avviene: 

7245 ... En cel jour fu Croissans engenrés 

Li mot del angle sont mout bien retenu. 

Perfetta è la coincidenza delle parti centrali della Regimi 
(l'Oriente con la Chanson d'Yde et Olire; dall’ottava 7 del 
cantare III fino all’ottava 40 il racconto riproduce uno dopo 
l’altro gli episodi della «chanson», l'amore della principessa 
per il nuovo venuto, le nozze, il colloquio degli sposi cosi male 
assortiti, il bagno, l’intervento dell’angelo, la mutazione di sesso. 
V’è in più nella Regina d’Oriente tutta la complicata storia dei 
carteggi tra le corti di Roma e d’Oriente ; la parte del semplice 
garzone viene affidata, dal cantastorie italiano, a donna Berta, 
e la rivelazione casuale trova nella vendetta di donna Berta la 
sua ragionata motivazione psicologica. Non hanno alcun riscontro 
nella Chanson d’Yde et Olire la prima parte (cant. I e II), cioè 
le avventure della regina-madre, e l’ultima (c. Ili, 43-50, e IV), 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


138 


Tumore morboso della signora della Spina per il re d’ Oriente 
e le guerre da lei suscitate, con l’intervento diabolico dei bal- 
bani di Maometto. 

Tutto sommato, sebbene gli episodi essenziali trovino riscontro 
nel poema francese, questo appare ancora insudiciente per rap¬ 
presentare la fonte immediata dei quattro cantari. Per aprirci 
un varco nella meravigliosa, ma intricata foresta della lettera¬ 
tura leggendaria, dobbiamo ora affrontare un grave problema: 
l’origine degli otto cantari della Bella Camilla , i quali sono per 
la loro materia strettamente connessi con la Regina (l’Oriente. 
La Bella Camilla è opera di quel Pietro di Viviano, canterino 
di Siena, di cui si ha qualche notizia sulla fine del Trecento e 
al principio del Quattrocento e qualche componimento popola¬ 
resco, per vero non molto vivido di poesia (1). Si legge in tre 
codici, tutti del Quattrocento (2). Anche Pier canterino, « il qual 
si diletta, d’antiche storie far nuova ricordia » (IV, 1, 6) dichiara, 
al pari del Pucci, di volgarizzare, anzi di rinnovare una leg¬ 
genda già nota (1, 2, 4); ed a quel libro si appella spesso. 

Amideo, re di Valenza, ha dalla moglie Idilia una figliuola, 
Camilla, che viene allevata con una educazione tutta virile. In¬ 
tanto Idilia ammala e, giunta agli estremi, impone al marito: 

Giuratemi per fede 

di non prendere in vostra vita moglie 
ch’ella non sia più bella di mene. 

Amideo, dopo aver cercato invano una donna simile, fa chia¬ 
mare Camilla e le dice: 

Bella figliuola, i’ ti vo’ per mogliera! 


(1) Cfr. F. Novati, Le poesie sulle frutto, cit., nel voi. Attraverso il Me¬ 
dioevo, pp. 330-335 ; 347-48. 

(2) Palatino CCCLIX, scritto da un Lorenzo Morelli [cantare di Camilla]-, 
Laurenz. PI. XLII, 28, c. 49 [ Camilla bella J; Laurenz. LXXVTII, 23 [Otto 
cantari di Amadio], Fu pubblicato diplomaticamente dal codice Palatino da 
V. Fiorini, La bella Camilla, poemetto di Fiero da Siena, Bologna, 1892 
[ Scelta di curiosità letter., disp. CCXLIIIJ. 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 


Digitized by Google 




134 


r. LUTI 


Per deludere lo brame di Araideo, Camilla tinge di assen¬ 
tire e si chiude nella rocca della Spina con un suo fratello di 
latte, Mambriano; con lui fugge sul lido e imbarca sulla galea 
d'un certo Ricciardo. Si traveste da cavaliere e prende il nome 
di Amadio, mentre Mambriano cambia il nome in quello di 
Fedele. 

La galea approda all'isola Sicura; Bambelina, figlia del re 
indigeno Alfano, si accende di furioso amore per Amadio, ve¬ 
dendolo addormentato sul lido, e vuole abbracciarlo; ma è ri¬ 
pagata con uno schiaffo. Dopo una mischia generale, i naviganti 
riprendono il mare e dopo una nuova serie di avventure giun¬ 
gono a un monastero; anche la badessa, come Bambelina, s’in¬ 
namora dell'irresistibile Amadio; ed anche lei con quel bel frutto. 

Nuova burrasca, e finalmente si sbarca nel porto di Leanza 
nel regno di Aquileia, governato da re Felice, padre d’una prin¬ 
cipessa splendida come una stella, Cambragia: 

Signori, il libro e la storia mi dice 
che questa terra si regge a signore 
per uno che avea nome il re Felice. 

Amadio, come Yda alla corte di Ottone, snocciola una fanta¬ 
stica storia ed è creato scudiero del re. Viola Bianca, damigella 
di Cambragia, se ne innamora e alla fine se ne innamora anche 
Cambragia stessa, la quale arditamente, un giorno che Amadio 
è a caccia e si china per raccogliere un falco, lo bacia in sulla 
bocca. Il re Felice intanto ha deciso di dare in isposo alla figlia 
il duca Carlo d’Ungheria; ma Cambragia, cui ben altro frulla 
pe’l capo, non ne vuol sapere. Si bandisce un torneo: il vin¬ 
citore otterrà la mano di Cambragia. Fedele, Ricciardo e Amadio 
formano una schiera, tutti vestiti di verde; e Amadio reca sul 
cimiero una manica della bella Cambragia ; essi riescono vinci¬ 
tori, sicché la scaltra principessa 

disse gridando: — Tràne carta, notajo, 
chéd io questo baron to’ per marito! — 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


135 


Il marchese di Brandeburgo, geloso della felicità di Amadio v 
e subodorando qualche segreto imbroglio, colloca sotto il letto 
nuziale un suo nano, il quale ascolta, venuta la notte, le pro¬ 
teste d’amore dell'ardente Gambragia, le timide difese dello sposo 
e la rivelazione dell’avventura. Avvisato dal marchese, re Felice 
prepara una prova per porre in chiaro la verità e fa bandire: 

tutti in brigata al bagno n’andereino, 
c questa notte si ci bagneremo. 

Sul più bello, appare una leonessa e mette in Scompiglio lo 
spettacolo, si trae dietro Amadio in un bosco e ivi si rivela 
per un angelo : dopo di che « Camilla bella trovossi garzone * 
(Vili, 17, 8). 

È inutile riferire il resto, che si indovina. 

Il poema di Camilla bella è assai lungo. Ma la lunghezza 
non deriva dalla ricchezza degli episodi come nella Regina (l’O¬ 
riente ; è la conseguenza della ripetizione artificiosa e mecca¬ 
nica di alcuni dati fondamentali, tratti dalla Chanson d’Yde et 
Olive. Tra le premesse e lo scioglimento, Pier Canterino ha tro¬ 
vato comodo collocare gli amori suscitati dal finto Amadio in 
Bamhelina, nella badessa, nella Viola Bianca, i quali allontanano 
l’episodio finale di Cambragia. Ma se quella varietà poteva illu¬ 
dere le folle distratte di S. Martino del Vescovo, non inganna 
punto l’occhio vigile di chi è esperimentato di simili artifici 
leggendari ; tutta quella borra non conta nulla nella compagine 
del racconto. E tolte quelle ripetizioni meccaniche del motivo 
essenziale, il cantare combacia esattamente, in tutte le sue parti, 
persino nelle minuzie, con la Chamon d’Ydeet Olive. Gli otto 
cantari della Bella Camilla conservano intatta anche la prima 
parte della leggenda, la quale è omessa nella Regina (l’Oriente', 
la ragione della fuga e del travestimento doll’eroina, per sfug¬ 
gire alle nozze col padre. Tutto dunque fa credere che il libro 
di cui si servi Pier Canterino sia il poema francese o uua ver- 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



136 


E. LEVI 


Digitized by 


sione in prosa di quello (1). Se non che alla composizione della 
Bella Camilla non può ritenersi estraneo il ricordo della Re¬ 
gina d’Oricnte, che per la prima volta aveva raccolta tra noi 
la vecchia leggenda francese. È evidente nel dozzinale canta¬ 
storie senese la velleità di gareggiare col Pucci ; molti partico¬ 
lari, da lui introdotti ad arte nel racconto, sono desunti dai 
cantari pucciani, molti versi sono presi a prestito da quelli e 
copiati alla lettera (2). Anche i nomi stessi dei luoghi e degli 
eroi rivelano l'origine pucciana degli episodi: la rocca della 
Spina (3), la valle Scura, ecc. La pazza Bacchibella, che è al 


(1) Abbiamo di Buon de Bordeaux e dei relativi supplementi una ver¬ 
sione in prosa compiuta nel 1454 « à la requeste et prière de monseigneur 
« Charles seigneur de Rochefort et de messire Hues de Longueval seigneur de 
« Vaulx et de Pierre Ruotte » (M. Schweiuel, Op. cit., p. 2), tradotta alla 
sua volta in inglese nella prima metà del sec. XVI. Lo studio delle propag¬ 
gini italiane fa apparire verosimile che esistesse una versione prosastica an¬ 
teriore a quella cosi fortunata del 1454. 

(2) Il verso (I, VI, 2): « com’è usanza tra marito e moglie » è uguale a 
quello della B. d'Or., Ili, 41, 8: « come tra moglie e marito è l’usanza ». 
I vv. Vm, 7-8 : 

preghiamo ancor la sua madre verace 
che ci conduca con onore in pace. 

ricordano quelli della Bellina , IV. 44, 6-7: 

in vita eterna... 

# 

Alla qual ci conduca il Salvatore. 

La prima ottava della Bella Camilla è in fondo la stessa, con qualche leg¬ 
gera variante, di quelle che il Pucci mise in fronte ai suoi due cantari di 
Bruto e di Gismirante : 

lo prego Cristo 

che mi concieda grazia nella mente 

ch'io posso chiara mia voluntA dire. 

E prego voi, signori e buona gente, 
ohe oon affetto mi dobbiate udire; 
io vi dirò una storia novella. 

Bruto). 

(:l) B . Camilla , II, 5, 6 = B. d'Oriente, III, 50, 1. 


Altissimo Signor, 

couciede grazia al poco ch’io di- 

[soerno 

e alla mente mia acerba e dura 
ohe ’l mio immaginar venga in effetto... 
Tu se’ tanto benigno e grazioso 
ch’io spero del mio dire aver vittoria 
sì ch’a voi, Signor, col oor gioioso 
vo' rinnovare una antica storia. 

( B . Camilla). 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
-U R B7WA--OHAM PAt§W—- 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


137 


fianco di Cambragia, ha non pochi tratti di rassomiglianza con 
donna Berta, che è al fianco della regina d’Oriente. 

Insemina i rapporti reciproci delle tre scritture leggendarie 
potrebbero schematicamente raffigurarsi cosi : 


Me et 

X 

X 

X 

X 

I 


Olive 


I 

R. d’Oriente, III, 7-40. 

\ 

\ 

\ 

\ 

\ 

\ 

\ 

\| 

Ixi bella Camilla 


% 


Restano a spiegarsi le parti della Regina cl’Oriente che non 
hanno riscontro in Huon de Bordeaux: il viaggio a Roma della 
regina, il capriccio dell’imperatore, l’insidia dell'imperatrice e 
la difesa disperata della donna (cant. t e 2). Siccome il Pucci ci 
parla di un sol libro e non di molteplici fonti, bisogna ammet¬ 
tere che la contaminazione dei vari motivi leggendari fosse già 
avvenuta in un romanzo antecedente, oppure che il « libro », 
al quale il Pucci si riferisce, fosse una vasta compilazione cao¬ 
tica di episodi meravigliosi tratti dalle varie opere dei trovèri. 
Lo stesso si deve dire del singolare episodio della castellana 
della Spina, di cui non so additare nella leggenda alcun riscontro 
preciso, sebbene sia facile riconoscere la provenienza dei par¬ 
ticolari spicciolati e persino dei tratti incidentali (t). Quando 


(1) Un altro riscontro leggendario, ma assai remoto, additò il Wrsselofskv, 
Op. cit., p. 227. Quando la regina d’Oriente è avviluppata dai nemici, l’an¬ 
gelo le appare (II. 13-14): 

e poi li disse: — To’ questa bacchetta; 
fra tuoi nemici si la va a pittare, 


Digitized by 


Google 




Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
-HRBANA-CHAMPAIGN 



138 


B. LEVI 


il re d'Oriento cade prigioniero nella rocca della Spina, la ca¬ 
stellana gli dà a bere un beveraggio fatato ; egli si addormenta 
e poi la scambia per la sua moglie diletta e la bacia sulla bocca 
(Rei 7 . d’Or., Ili, 48-49). In modo simile, nel Parthenopeus de 
BloiS , Parthenopeus, quando è ritornato a Blois, per un certo 
vino propinatogli dalla madre, si scorda di Mélior e richiede di 
follia la nipote del re di Francia: 

... boit tant 

qu’il en change tot son talent 
plus esbaudit et plus favele, 

dicendo: < Gite come fumo al vento! » 

... l’alta reina a cavai fu montata, 
feoesi il segno de la santa oroce 
e contro e’ suoi nemici ne fa andata. 

Quando fu presso a lor, molto feroce, 
la bacchetta tra loro ebbe gittata... 
e tutta quella gente si fuggia. 

« Quella bacchetta portata dall’angelo è lo reyrs prote. di Odino, del quale 
« si racconta la seguente storia: quando Erico di Svezia contendeva con Styr- 
« biflrn alla battaglia di Tvriswall, quest’ultimò sacrificò a Thoro, ma il primo 
« si votò a Odino, pregando il Dio di dargli vittoria, protestando contentarsi 
« di dieci anni di vita se gli concedesse la sua domanda. Allora apparve un 
« uomo di alta statura, avendo un largo cappello sulla testa ; quello donò ad 
« Erico un fusto di canna, ammaestrando a gittarlo sopra l’esercito nemico 
« colle parole: — Odino vi ha tutti. — Appena fatto questo, una lancia 
« volò nell’aria al disopra dell’oste di Styrbiòrn e lo colpì di cecità prepa- 
« rando così la sua strage. Il simile si canta nella Erybryygiasnga di Stein- 
« thor: anche qui il dardo gittato sopra le teste dei nemici pare essere la 
« lancia di Odino, che decideva della battaglia ». Il Wesselofsky ricorda anche 
che i feciali romani dichiaravano la guerra gettando in terra nemica « hastam 
ferratam sanguineam praeustam ». — « In ogni modo, romane o germaniche, 
« le vecchie credenze popolari si sono perpetuate nei cantari del secolo XIV, 

< che sarebbero tutti da studiarsi sotto questo punto di vista. Fossero le opere 
« loro imitazioni e rifacimenti o semplicemente traduzioni dal francese, non 
« bisogna dimenticare che i traduttori del Medio evo non erano quelli di og- 
« gidì e spesso assunsero la parte dell’autore, introducendo nel concetta ori- 
« ginale molto di loro proprio o proprio della nazione a cui appartenevano *. 
Ecco perchè lo studio della leggenda mi pare non solo affascinante per quello 
che ha di fantasioso e poetico, ma anche necessario per la storia del pensiero 
e dell’arte della nazione. 


Digitized by Goosle 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 




I CANTARI LKGGKNUART ITALIANI 139 

fort est la poison et novele; 
la damoisele a esgardée 
et Mélior tote oubliée. 

Sa mère entent à la parole 
et à son seniblant qu’il afole; 
tant le demaine la folie 
qu’il la requiert de folie... 

Quello che è più spiccatamente caratteristico nel romanzo del 
Pucci è l’apparato orientale del racconto ; la magnificenza sfar¬ 
zosa di quella corte asiatica, la varietà dei colori, dei tipi, delle 
vesti, l’intervento di potenze strane e contraffatte, quali i ba¬ 
roni di Maometto e le stregonerie e le malizie diaboliche di essi. 
Forse la fantasia del poeta fu eccitata dalla lettura di qualche 
relazione dei viaggiatori in Terrasanta e de’ palmieri, come po¬ 
trebbe essere il Libro d'oltremare di frate Niccolò da Poggi- 
bonsi (1346). Ma io credo più probabile che il Pucci abbia ten¬ 
tato semplicemente di trasferire nel dominio della leggenda 
quelle meravigliose descrizioni del misterioso oriente lontano, 
che si leggono nel Milione di Marco Polo. Mi fa pensare al 
Milione l’accusa esplicita che il papa e l’imperatore fanno alla 
sultana d’Oriente di trasformare la corte in un luogo di delizie, 
tra canti e balli giocondi, e di non credere ad altro paradiso, 
che a questo paradiso terreno. 

... se nel mondo avea alcun diletto 
costei Cavea tutto al suo cospetto, 
siccome s’erau canti di vantaggio 
ed istrumenti d’ogni condizione, 
con cento damigelle d’un paraggio 
cantavan e sonavan per ragione. 

EU’eran tanto belle nel visaggio 
che agnoli pareau, non che persone... 
e disse al papa: — In cotal parte regna 
una che fa del mondo paradiso 
e for di questa vita ogni altra sdegna... — 

(2?. d'O., I. 4-8). 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



140 


K. LETI 


È questa precisamente la descrizione che Marco Polo ci fa 
della corte del Voglio della montagna e degli assassini e del 
giardino mirabile ove erano « donzelli e donzelle, gli più belli 
« del mondo e che meglio sapevano cantare e sonare e ballare; 
« e faceva lo Veglio credere a costoro che quello era lo para¬ 
fe diso » ( 1 ). 

E perciò il fece, perchè Malcometto disse che chi andasse in paradiso avrebbe 
di belle femmine tante quante volesse e quivi troverebbe fiumi di latte e di 
miele e di vino; e perciò lo fece simile a quello che avea detto Malcometto. 
E gli saracini di quella contrada credevano veramente che quello fosse lo pa¬ 
radiso. [Gli giovani]... veramente si credevano essere in paradiso. E queste 
donzelle sempre istavano con loro in canti e in grandi sollazzi. 


Intorno alla ricca materia degli indussi del Milione sulla leg¬ 
genda assai ancora mi resterebbe da dire; ma qui io voglio 
impormi il silenzio « e più lo ’ngegno ad’reno ch’io non soglio ». 


XV. 

Madonna Elena. 

Questo cantare si riconnette con due motivi leggendari assai 
ricchi e diffusi, con quello della « donna calunniata e persegui- 
« tata », che ebbe nella nostra letteratura la consacrazione del¬ 
l’arte nell’episodio di Ariodante e Ginevra del l ’Orlando Furioso, 
e con quello della « scommessa ». 

Nel mese di maggio Carlomagno era solito di tenere corte 
bandita. Durante una di queste feste ù proposto un vanto e cia¬ 
scuno dei baroni vanta le proprie ricchezze o la bellezza della 


(1) M. Polo, Il Milione secondo il testo dello « Crusca » reintegrato con 
gli altri codici italiani, a cura di D. Olivieri, Bari, 1912 ( Scritt. d'Italia, 
voi. XXX), p. 36 e seg. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY ÒF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN- - 




I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


141 


moglie o dèlia sorella (1); Ruggero di Mompellier naturalmente 
si gloria di possedere la sposa più bella e più virtuosa di questo 
mondo. E infatti non si conosceva allora dama più meravigliosa¬ 
mente bella di madonna Elena, figlia di Amerigo da Narbona (2). 
Ma Guernieri (l’Oltremare, « falso e malvagio», non tollera il 
vanto del buon Ruggero e dice di aver « aùto tutto il suo volere » 


(1) A questi vanti accenna assai di frequente la leggenda medievale; cfr. 
C. Nyrop, Storia dell'epopea francese eit., pp. 119-120. Nel lais di Graelent, 
come si è visto, il re fa esporre nuda la regina su un palco e vanta le bel¬ 
lezze di lei a gara coi suoi baroni. T T n vanto simile si ha nel primo cantare 
di Ltombruno: 


40 

E l'altro di si fece ritornare 
in sa la sala i barou tutti quanti, 
ed ordinò che ciascun si vantasse 
e poscia il vanto innanzi Ini provasse. 

41 

Chi si vantava di bella mogliere 
chi si vantava di bella magione 
chi di cavai corrente e buon destriere, 
chi di gentil sparviero o di falcone 
chi di palazzi o di gran torri altiere 
ohi si vantava di tal condizione... 

Se non che le somiglianze precise, non solo di sostanza, ma anche delle parole 
e delle rime, mi fanno dubitare che il cantastorie di Ltombruno abbia at¬ 
tinto direttamente proprio alle ott. IX-X di questo cantare: 

e a ciascun fu mestier ohe si vantasse 
poi convenia che ’l vanto provasse 

IO 

Chi si vantava di bella moglieri, 
qual si vantava di bella sorella, 
d’aver beU’arini e correnti destrieri 
o ricco di cittade e di castella, 
d’astor o bracchi o correnti levrieri, 
o per amica aver bella donzella 

e ohi si vanta d’oro e d’ariento 

# 

e chi d’esaer prod’uomo in torniamento. 

(2) Amerigo di Narbona è uno dei personaggi del ciclo di leggende com¬ 
pendiate nel romanzo Le storie narbonesi. Cfr. L. Gaitier, Les Épopées fran- 
paises 2 , IV, pp. 231 e segg.; Nyrop, Op. cit., p. 130. Un cantare del sec. XIV 
è intitolato appunto « Americo di Narbona » (cod. Maglb. VII, 761). 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



142 


E. LEVI 


da quella dama cosi virtuosa e si offre di darne le prove entro 
un mese recando davanti a Carlomagno alcuni gioielli e un ve¬ 
lette di madonna Elena. Poi coi suoi cavalieri va ad armeggiare 
sotto le finestre del castello di Gironda e con molte lusinghe ot¬ 
tiene da una cameriera non solo una compiuta descrizione delle 
bellezze di madonna Elena e dei suoi figliuoletti Arnaldo e Giron¬ 
dino, e dei portentosi segreti del castello, ma anche un anello e 
uno scheggiale argenteo della dama. Il perfido Guarnieri dà ad 
intendere ai suoi baroni che quella donna, con la quale aveva 
avuto quei misteriosi colloqui, fosse proprio madonna Elena e poi, 
trionfante, arreca a Carlomagno tutte le gioie rubate dalla ca¬ 
meriera. Convinto da quelle prove del tradimento della sua sposa. 
Buggero disperatamente chiede commiato a Carlomagno, cavalca 
a briglia sciolta verso Gironda, entra nella città, vi uccide uo¬ 
mini e donne, uccide le guardie, uccide persino i suoi due figliuo¬ 
letti e getta dalla finestra madonna Elena. Ma Elena cade in 
un fiume e per la miracolosa protezione di Gesù Cristo riesce 
a guadagnare, sana e salva, la riva; subito invia un messaggero 
al padre perchè con un esercito muova verso Parigi a trarre 
vendetta di quei misfatti e, senza attendere scorta, ella stessa 
accorre alla corte di Carlomagno. Quando Elena arriva, Buggero 
sta per essere condotto a morte, secondo i patti del vanto. La 
impavida donna si fa innanzi e olire airimperatore di provare 
colle armi alla inano che Guarnieri è un traditore. Invano Guar¬ 
nieri oppone scuse e pretesti; egli deve prendere campo e di¬ 
fendersi dagli aspri colpi dell’eroina ; in pochi istanti egli è vinto 
e abbattuto. Elena gli è colla spada alla gola; allora egli con¬ 
fessa il tradimento della cameriera e la sua calunnia. All’udire 
quella confessione, Buggero, disperato per l’assassinio dei figli, 
fugge come pazzo da Parigi. Ma Elena lo fa rintracciare, lo ri¬ 
conduce davanti all’imperatare e gli perdona. 

L'argomento del cantare è press’a poco quello della novella IX 
della seconda giornata del Decamerone , dove però gli avveni¬ 
menti sono trasferiti dal mondo cavalleresco in quello dei mer¬ 
canti. A Parigi, in una brigata di mercanti genovesi, Ainbrogiolo 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


143 


ila Piacenza scommette di provare entro tre mesi che la moglie 
di Bernabò Lomellino, della quale si vanta la virtù, è la sua 
amante. Nascosto entro una cesta, riesce a penetrare nella stanza 
ila letto della dama e poi, ritornato a Parigi descrive la casa, 
le cose più intime e le bellezze del corpo di lei; sicché Bernabò 
si dichiara vinto. Egli ritorna a Genova per fare uccidere la 
moglie che ritiene infedele. Ma ella sfugge alla morte e dopo 
molte avventure riesce a provare al marito il tradimento e la 
calunnia di Ambrogiolo da Piacenza. Dalla novella boccaccesca 
o almeno da alcuni episodi di essa deriva il più celebre degli 
svolgimenti artistici del vecchio motivo leggendario, la roman¬ 
zesca e fantasiosa tragedia di Cymbeline di Shakespeare (1). 
Un altro riscontro della versione poetica italiana della leggenda 
può additarsi nel grazioso ed elegante romanzo della Violetta , 
che fu composto nel primo trentennio del sec. XIII (2). Pu¬ 


tì) Cfr. R. Oh le, Shakespeare's Cymbelyne and seine romanischcn Vor¬ 
lati fer, Berlin, 1890. 

(2) Roman de la Violette ou de Gerard de Nevers, en vers, du XIII® 
siècle, par Gibert de Montrevil, publié pour la première fois d’après deux 
luss. de la Bibl. Royale par Francis Michel, Paris, 1834. — Se ne fece una 
traduzione tedesca pubblicata nella Sammlung Romani ischer Dichtungen des 
Mittelalters, hgg. von Friedrich Schlegel, Leipzig, 1804. Dal romanzo di Gi¬ 
berto di Montreuil è pure tratto il celebre melodramma di Weber, Eurianthe 
(1824). — Intorno all’origine del romanzo della Violetta, cfr. A. Rochs, Veber 
den Veilchenroman und d. Wandenmg d. Euriantesage, Halle, 1882; 
Docglas Labarkkk Bofptm, Le roman de la Violette, a Studi/ of thè Manu- 
Scripts and thè originai Dvdect, Baltimore, Furst, 1904; Idem, The source 
of thè roman de la Violette, nella Romanie Revieic, voi. IV (1913), pa¬ 
gine 472-478. Secondo il Boflum la fonte del Roman de la V'iolette (scritto 
tra il 1225 e il 1250) sarebbe la prima parte (vv. 1-1229) del romanzo del 
Comte de Poitiers. Il Comte de Poitiers è un racconto crudo, truce, vio¬ 
lento, composto evidentemente per una società primitiva. Le più notevoli va¬ 
rietà che il romanzo della Violetta presenta rispetto al Comte de Poitiers, 
sono il segno di riconoscimento dell’eroina (il fiore), il titolo, che trae origine 
appunto da quel fiore, e la frequente citazione di canzonette a ballo; per 
questi caratteri la Violette si riallaccia al Roman de la Rose ou de Guil¬ 
laume de Dole (p. d’apròs le ms. du Vatican p. G. Servois, Société des A. T. F., 
1893). Il romanzo della Rose fu composto verso il 1200. Insomma il Boffum 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
— URBANA-CHAMPAIGN 



144 


E. LEVI 


rante una festa, il conte di Nevers vanta le bellezze e le virtù 
della sua hi e le arnie Euriante di Savoia. Liziart, conte di Forez, 
lo contraddice e allora si propone che se egli entro otto giorni 
riuscirà a sedurre Euriante, otterrà la contea di Nevers, se in¬ 
vece fallirà nei suoi tentativi, dovrà cedere al competitore la 
contea di Forest. Goll’aiuto di una vecchia, Liziart riesce a ve¬ 
dere, attraverso un forellino, Euriante nel bagno, e nota che 
ella ha un neo, una violetta « desor sa destre inainelete ». Forte 
di questa scoperta, Liziart ritorna alla corte ed è dichiarato 
vincitore del vanto; Gerardo come Ruggieri nel cantare, vuole 
uccidere Euriante, ma alla fine, dopo infinite avventure, T in¬ 
nocenza di lei si rivela in tutta la sua fulgidezza e il perfido 
calunniatore deve confessare, morendo, il suo delitto. 

Nel Quattrocento la novella della « scommessa » fu narrata 
in prosa da Feliciano Antiquario in un lungo racconto intito¬ 
lato Ju$ta Victoria (t). L’argomento essenziale è lo stesso del 
cantare di M. Elena; ma vi sono delle profonde varianti nei 
particolari: la più notevole si è che qui la donna calunniata è 
sorella, non moglie del protagonista. Naturalmente questo dram¬ 
matico motivo leggendario non può mancare nella tradizione 
popolare; e infatti ne abbiamo parecchie versioni, ina non molto 
antiche, nelle fiabe e nelle novellette toscane e siciliane (2). 

11 motivo della «donna perseguitata» e della «scommessa» è 
cosi ricco, che i riscontri potrebbero moltiplicarsi infinitamente. 


ribadisca il penetrante giudizio del Paris, secondo il quale il poemetto più 
breve, il C. de Poitiers, « est une oeuvre singulière, pieine de charme et de 
« bizarrerie, barbare et rude * e invece la redazione più diffusa, la Violette, 
« est une murre raftinée, un roman mondain, un roman à la mode, avec tout 
« ce que le mot comporte de qualités et de défauts ». 

(1) La novella di Justa Victoria fu pubblicata di sul codice autografo 
Riccard. 1459 da G. Pacasti, Catalogo dei novellieri dal. in prosa, Livorno, 
1871, voi. II, p. 1. 

(2) La novella toscana del Sigtior Giovanni e quelle siciliane: Ervahianca , 
Iai re di Spagna, La stivala furono indicate e analizzate da O. Taroioni- 
Tozzetti, Cantare di Madonna Eletta imperatrice, Livorno, 1880 (nozze 
Soria-Vitali), pp. 22-28. 


Digitized by 




Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


145 


Ma è inutile ogni altro apparato d’erudiziono poiché la leggenda 
è già stata minuziosamente studiata, nei suoi atteggiamenti e 
nel suo svolgimento attraverso i secoli, da Gaston Paris (i). 

La forma primitiva del mito deve essere quel racconto bru¬ 
tale, violento e sanguinoso, che più degli altri rispecchia i sen¬ 
timenti e le idee d’un’umanità inferiore e selvaggia : due uomini 
fanno una scommessa intorno alla virtù d'una donna, che è la 
sorella di uno di essi ; l’uno crede di averla sedotta e in segno 
della sua vittoria annuncia di averla mutilata ; ma la donna si 
era fatta sostituire nel letto profanato da una ancella e mo¬ 
strando intatto il dito o la mano o il braccio, che il seduttore 
aveva detto di aver mutilati, lo confonde e lo convince. I testi 
più cospicui di questa selvaggia leggenda sono un poema bizan¬ 
tino, una novella gallese del secolo XIII, un poemetto tedesco 
del XIII secolo, tradotto da un originale francese da Ruprecht 
di Wùrzburg, I due mercanti di Verdun , e una commedia 
composta a Norimberga da Jakob Ayrer, Von ztceyen fiirst- 
lichen Rdthen. Il Paris crede che questo mito sia venuto al¬ 
l’Europa dal più lontano Oriente, perché esso presuppone una 
società umana sprezzante dei legami famigliali e della santità 
dello leggi del sangue. La donna intorno alla quale si accende 
la disputa, é la sorella d'uno dei contendenti, non la sposa, conm 
raccontano le forme poetiche a noi più vicine. E la donna si 
sottrae alla seduzione sostituendo a sé stessa una serva. Questa 
sostituzione, che nega ogni valore di umanità all’ ancella, la 
quale viene a cuor leggero abbrutita e disonorata nel letto non 
suo, non può essere stata immaginata che nei tempi, in cui la 


(1) G. Paris, Le cycle de la • Gageure », nella Romania, XXXII, pa¬ 
gine 481 e segg. Sono lezioni tenute al Collège de France, trascritte e rior¬ 
dinate da J. Bédier. Il Paris aveva prima pubblicato una parte di quel la¬ 
voro col titolo: Le conte de la Gageure dam Boccaee, nella Miscellanea 
di studi critici, ed. in onore di Arturo Graf, Bergamo, 1903, pp. 107-116. 
In qualche parte del mirabile lavoro si avverte qualche incertezza, che forse 
ulteriori meditazioni avrebbero dissipata. 

Giornale storico — Sappi, a® 10 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



Digitized by 


14<> X . LIVI 

servitù limitava ad alcune classi privilegiate . persino l’onore 
femminile. Nel medio evo il culto e il rispetto della donna erano 
cx>si vivi ed era cosi vivo il concetto dell’ uguaglianza fonda- 
mentale degli uomini, che un tale racconto sarebbe sembrato 
assurdo. Per questa ragione i tratti più brutali e crudeli di quel 
mito barbarico vennero raddolciti e mutati. Alla sorella si so- 

9 

stituì la moglie d’uno dei contendenti e alla mutilazione di 
quell’ infelice si sostituì, come prova della seduzione, l’indica¬ 
zione da parte del seduttore di qualche segno materiale di ri¬ 
conoscimento, un neo, una macchia, qualche gioiello. E con ciò 
si venne a risparmiare quel barbaro e raccapricciante spargi¬ 
mento di sangue. Cosi potato e rassettato* l’albero prodigioso 
della leggenda ebbe una vita così intensa e robusta che i rami 
divennero una selva folta, impenetrabile, intricata ; nè sempre 
riesce al nostro pensiero di rimettervi l’ordine. Il Paris distingue 
tre gl andi classi. Luna (/t) è quella selvaggia e barbarica che 
ha a fondamento la sostituzione dell’ancella e la mutilazione di 
essa. La seconda ( B ), che è la più ricca di varianti, ha sempre 
per dato comune la mala fede del presunto seduttore, il quale 
vanta di aver posseduto l’eroina, pur sapendo di asserire cosa 
non vera. Nella terza (C) l’eroina non ha parte alcuna nel 
riconoscimento della sua innocenza. È il caso, che con una 
serie di avvenimenti imprevisti si incarica di vendicare la verità 
sulla menzogna e di strappare al reo la confessione dei suoi 
delitti. 

Al gruppo B si riattaccano infinite « sottoclassi ». Nell’una, 
probabilmente di origine francese, non si ha più la sfida, che 
dianzi iniziava il racconto ; ne sono testi memorabili il Roman 
de la Rose ou de Guillaume de Dole (1199-1201) e la com¬ 
media Eufemia di Lope de Rueda. 

Un altro tipo di novelle è quello delle tradizioni popolari ita¬ 
liane, delle fiabe siciliane dei Due figli del principe di Mon- 
leleone, della Stivala , di Ervabianca , della nov. Justa Victoria 
di Feliciano Antiquario e della Pianella di Domenico Batacchi. 
Qui si ha sempre la sfida iniziale ; ma la donna, che è la §o- 



Original from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


147 


rella d’uno dei due contendenti, per dimostrare la menzogna del 
millantatore presenta al re un oggetto che fa il paio con un 
altro recato dal suo nemico, un guanto, una pantofola, una pia¬ 
nella, e accusa di furto il mentitore. Questa invenzione dell’og¬ 
getto « depareillé » è inutile e deve essere stata fatta una sol 
volta, sicché riesce relativamente facile ricostruire la storia e 
la vicenda di questo mito fantastico. Esso appare di fattura schiet¬ 
tamente italiana. 

La novella del Boccaccio (Decani., II, 9) non si riconnette nè 
con quelle novelle popolari italiane, nè col cantare di M. Elena, 
ma forma un gruppo a parte con un’altra novella italiana ano¬ 
nima del Trecento e con una novella pur italiana perduta, di 
cui si ha una versione tedesca stampata a Norimberga nel 1489, 
e con una parte dell’intreccio dello shakespeariano Cyrabeline. 
L’originale deve essere una novella italiana del secolo XIII, po¬ 
steriore al 1252. 

Un posto a parte, nella storia del gruppo B , occupa il can¬ 
tare di M. Elena , che ha dei tratti caratteristici, che non di¬ 
vide con alcun altro racconto affine : la donna calunniata, da 
sola, rivendica il suo buon diritto, si presenta alla corte del re, 
che era stato testimone della stida, e atterra nel torneo il suo 
vile calunniatore. 

Hanno qualche somiglianza con M. Elena, per la virile energia 
dell’eroina e per qualche altro carattere, un gruppo di novelle 
russe ed ebraico-tedesche e un altro gruppo, al quale appar¬ 
tiene il « miracolo » di Ot/ion voi d'Espagne composto a Parigi 
verso il 1380, e il romanzo piccardo-vallone in prosa, del sec. XIII, 
Le voi Floire et la belle Jehanne. 

1 due romanzi del Corate de Poitìers e della Violetta costi¬ 
tuiscono da soli l’ultima delle famiglie (C) della leggenda. In 
essi, a differenza di quel che avviene negli altri racconti, la 
donna non partecipa per nulla all’azione. È la fortuna che ne 
prova l’innocenza, è il marito che sfida il traditore e ne affretta 
il castigo. 

Insomma, attraverso la selva dei miti e delle creazioni fau- 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



148 


E. LEVI 


tastiche dell’Europa, noi assistiamo alla lenta purificazione di 
quel motivo barbaro e selvaggio della donna mutilata e violata. 
La novella, che trae l'ispirazione dal dispregio della femmina, 
giunge alla glorificazione della donna casta e virtuosa, che con 
eroica fermezza supera le vicende della vita e vince le crudeli 
prove del destino. Ed è una lezione di umanità, che ci viene su 
dal profondo dei secoli. 

Il cantare è conservato da due codici del Quattrocento ( t ), 
ma appartiene senza dubbio al più puro Trecento. Una prova 
positiva della sua antichità si ha nelle ott. 9-tO, che sono certa¬ 
mente — come si è visto — la fonte delle ott. 40-41 di Liom- 
bruno. 

I nomi francesi o provenzali degli eroi dell'avventura, Guar- 
nieri, Amerigo di Narbona, Arnaldo, Girondino, fanno credere 
al Paris che il cantare abbia a fondamento un originale fran¬ 
cese o provenzale, che oggi noi non conosciamo più. Ma po¬ 
trebbe anche darsi che il cantastorie nostrano, che doveva ben 
conoscere il ciclo epico narbonese, abbia volutamente trasferita 
l’azione dal mondo borghese o dall’ambiente orientale nel mondo 
cavalleresco provenzale, per dare un colore locale più inte¬ 
ressante e più vivace alla sua creazione e per imitare i romanzi 
di cavalleria, che avevano tanta fortuna in mezzo al pubblico. 
Si noti che nei codici il cantare ha il titolo di Madonna Efena 
imperatrice, mentre di imperatrici e di imperi non è parola 

nelle ottave che seguono. Quel titolo fu messo in fronte al can- 

» 

tare semplicemente perchè una delle leggende più diffuse era 
appunto quella di Sant' Elena imperatrice. Elena, già ebbe a 
notare il Paris, « est appelèe mècaniquement imperatrice à 
cause de Sainte Hélène, toujours ainsi qualifiée » (2). 


(1) Cod. CLX della Bibliot. Comun. di Perugia; cod. Moreniano-Bigazzi, 
CCXIII, c. 136. 

(2) G. Paris, Le cycle de la « Gageure », cit., p. 526 n. Uno dei libri po¬ 
polari italiani più diffusi (ne conosco una ventina di edizioni) è la « Leg- 
« genda di S. Elena imperatrice, madre di Costantino imperatore, nella quale 
« si dichiara come Ella ritrovò la Croce di N. S. Gesù Cristo », ecc. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


149 


XVI. 


Cerbino 


L’argomento del cantare di Cerbino è quello stesso nella nov. 4 
della quarta giornata del Lecamerone. Cerbino, nipote di Gu¬ 
glielmo II re di Sicilia, si innamora per fama di Elena, figlia del 
re di Tunisi, e le manda doni e messaggi; ma ella viene fi- 
danzata al re di Granata e imbarcata su una nave per essere 
condotta nel nuovo regno e nella nuova casa. Ben conoscendo 
l’amore di Cerbino per Elena e temendo qualche violenza da 
parte di lui, il re di Tunisi ottiene da Gugliemo II sicurtà per 
le inermi navi nuziali. Cerbino, disperato per la sua disavven¬ 
tura, si apposta con alcune galee corsare presso la Sardegna per 
liberare la sua innamorata. Ma l’equipaggio della nave saracena, 
vistosi sopraffatto dall’impeto dei marinai messinesi di Cerbino, 
piuttosto che cedere al nemico si bella e preziosa preda, uccide 
la sventurata Elena in presenza di Cerbino. Inutile dire il furore 
del principe innamorato! Neppure uno dei crudeli nemici sfuggì 
alla sua spada. Ma il re di Tunisi mandò subito un’ambasceria al 
re Guglielmo di Sicilia per lamentare raffronto e chiedere la con¬ 
danna del colpevole. Il vecchio Sovrano di Palermo, per mante¬ 
nere la parola data e la sicurtà promessa, fu costretto a con¬ 
dannare a morte il nipote Cerbino. 

La tragica storia d’amore è uno svolgimento leggendario d'uu 
fiitto realmente avvenuto o almeno raccontato come tale da Ro¬ 
berto, abate del monastero del Monte S. Michele in Normandia 
(n. 1110 circa; m. 1186), nella continuazione alla Cronaca di Si- 
geberto di Gemblours (1): 


(1) Roberti de Monte, Cronaca, ed. L. C. Betlimann in Monuni. Gemi. 
Hist., Scriptorex, voi. VI, p. 528. — M. Amari, Storia dei Musulmani di 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 


150 


E. LEVI 


[Anno 1174] — Rex Marroc, in cuius potentato est tota Affrica et etiam 
Sarraceni, qni sant in Hispania, inittebat tiliam suam ut quidam Rei Sarra- 
cenorum duceret eam in niorein. Quam stolus et galee regis Siciliae interve- 
nernnt et adduxemnt ad dominain suum ; ande rex. letas, pacificata» est 
cam patre eius, illa reddita; et pater eius reddidit regi Siciliae duas ci vi¬ 
tate», scilicet Affli cam et Sibiliam, quam Sarraceni abstulerant Willermo, regi 
Siciliae, patri istius regie. 

L’antichità della cronaca attesta che se la tragica storia non 
è vera, almeno era largamente diffusa e accolta per vera nel se¬ 
colo XII. Al racconto del monaco non manca altro che l’amore 
di Gerbino e di Elena perchè sia ormai già compiuta, in ogni suo 
elemento essenziale, la leggenda novellistica, che il Boccaccio 
volle incastonare nella collana del Decamerone. Secondo il Boc¬ 
caccio e .secondo il Cantare rii Cerbino la genealogia dei Nor¬ 
manni di Sicilia e del protagonista della novella è sconvolta e 
trasfigurata: Cerbino ivi è detto figlio di un Ruggero, premorto 
al padre, Guglielmo il malo, e alla sorella Costanza. Ma Costanza 
fu in realtà zia e non sorella di Ruggero. L'errore del cantare 
e del Decamerone è riprodotto anche nel profilo di Costanza, 
che è nel De Claris mulieribns (t). 

Non so se nel secolo XIII il nome di Cerbino già fosse asso¬ 
ciato al ricordo della leggenda normanna. Certo quel nome è 
diffuso anche in Toscana ai primi albori del Trecento (2), e in 


Sicilia, voi. Ili, P. II, Firenze, 1872, p. 516, nega fede al racconto del monaco 
del Monte S. Michele: « Se meritasse piena fede Roberto, abbate del Monte 
« a S. Michele, si direbbe che Abn Jakfìb fu vinto dalla cortesia del re Gu- 
« glieimo, il quale gli aveva rimandata libera una sua figliuola, presa dal- 

• l’armata siciliana sopra un legno almohade, che la conduceva sposa a un 
« re saraceno. Ma il fine del racconto scema autorità al coniinciamento, por- 
« tando che l’Ahnohade alla sua volta restituisse al re di Sicilia le due città 

• di Affrica e Zawila; il che non fu, nè poteva essere *. 

(1) Cfr. per tutto ciò M. Landau, iJie Quelita de» Dekmntron, Stuttgart, 
1884, pp. 327-830. 

(2) Un « Cerbinus filius Tencini », pel quale si resero mallevadori Dante 
e il fratello Francesco, è citato in documenti fiorentini del 31 marzo 1300 e 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAlGbl 



1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


151 


Lombardia già entra a far parte del repertorio poetico d'uu cu¬ 
rioso giullare e cantastorie, Zaffarino (1). Tra gli allegri compa¬ 
gnoni che si radunano intorno al focolare di Zaffirino è citato, 
nel curioso « bischigo» 0 della cà!, anche « il bon Gierbino »; 
e quello stesso « ver Zerbino », tristo compare di madonna Ma- 
lanconia, è ricordato nel Testamento o Stentamento di Zaf¬ 
farino : 


119 Ancuora lassa a dona Malanconia 
sua comare, e a suo cui pare, 
il ver Zerbino, lo molino... 

Nel 1787 Mario Pagano trasse dalla leggendaria avventura di 
Gerbino una sua truce e raccapricciante tragedia, Il Cerbino (2). 

Giovanni Lami, che attribuiva il cantare al secolo XIV, du¬ 
bitava che esso potesse essere una delle fonti della novella del 
Decamerone. « Questa novella si trova in ottava rima, opera 
« (per quanto pare) d’un poeta toscano ignoto, il quale può es- 
« sere del secolo XIV, e non solamente si trova in rima, ma 
«ancora data alla luce colle stampe nel seguente secolo, per 
« quanto però si può giudicare dairimpressione, poiché nou vi 


del 2 marzo 1801; cfr. S. Debkskdktti, Un nuovo documento di Dante e 
di Francesco Alighieri, in Bullett. della Società Dantesca italiana, N. 8., 
voi. XIV, p. 127. 

(1) Cfr. E. Levi, Zaffarino e le sue nozze con Monna Povertà, nel Bal¬ 
lettino critico di cose francescane, 1909, voi. Ili, pp. 3-14. 

(2) L’argomento pare tratto dal Boccaccio, ma è svolto assai liberamente 
ed è profondamente mutato. Elena, che qui è chiamata Erbele, non viene 
uccisa, ma tratta su una nave corsara a Granata ; anche Gerbino sfugge alla 
morte e cade prigioniero del re di Granata, Osmida. Osmida condanna a 
morte Gerbino, ma poi, per un impulso di tardiva generosità, fa fermare la 
mano del carnefice e stabilisce di non opporsi più alle nozze dei due amanti, 
Gerbino ed Erbele ; ma Erbele, disperata per il supplizio del suo fidanzato, 
ormai ha già bevuto il veleno e muore. Cfr. Il Gerbino, tragedia e VAga¬ 
mennone, monodramma-lirico dell’avvocato Francesco Mario Pagano, eco., 
Napoli, MDCCLXXXVII, presso i fratelli Raimondi; D. Cassino, Il teatro 
di F. M. Pagano e la critica di P. Napoli-Signorelli, Napoli, 1907. 


Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 



152 


B. LEVI 


« è data di anno, nè nome di luogo o stampatore » (1). 11 Lami 
osserva che nel cantare il Boccaccio non è mai nominato, come 
invece certamente si sarebbe fatto se esso fosse posteriore al 
Incamerane , e che lo svolgimento dell’azione è cosi ampio e 
avviluppato che non può credersi un rimaneggiamento della 
novella boccaccesca. Ma dopo le acute osservazioni di Luciano 
Scarabelli (2) nessuno può attenersi all'opinione, cosi incerta¬ 
mente e debolmente suffragata dai fatti, del vecchio erudito 
fiorentino. Lo stile e il verso del cantare sono lontanissimi 
dalla ingenua freschezza dei tempi del Boccaccio e il lusso 
degli ornamenti retorici tradisce l'arte di un ri maneggiatore, 
non s’accorda con quella, di solito semplice e schietta, (l'un 
inventore. « Ciò che poi condanna l’altrui giudizio è la st. LUI, 
« nella quale sono i versi: Arme , scoppietti e priete rint 
« narano Che fanno e' legni in su l'acqua tremare. Scoj>- 
« pietii al tempo del Boccaccio non erano, se v'erano schioppi ; 
« e quegli schioppi erano si grossi che stavano a posta. Uno, 
« al tempo della peste, descritto dal Boccaccio, era a difendere 
« la testo del ponte sul Po a Torino; uno al castello di Frassi- 
« neto, puro sul Po. Prima che tale arma fosse ridotta maneg- 
« gevole, passò di gran tempo e fu per le campagne e le città ; 
« altro tempo passò avanti che si maneggiasse sulle navi, e navi 
« di quelle condotte da Cerbino. Nè mi si venga a dire che per 
« scoppietto può intendersi come nel c. LVIII del Mm'gante 
« la ‘ balestra ’, perchè il verso parla di ‘ rintonamento ’ che fa 
« ‘ tremare i legni sull’acqua ’. La balestra non fa fracasso e il 


(1) Novelle letterarie, pubblicate in Firenze l’anno MDCCLV, tomo XVI, 
col. 161 e seg#.; l’articolo è poi ristampato in [G. Lami], Appendice all'II- 
l un trazione istorica del Boccaccio scritta da lì. M. Manni, Milano, 1820, 
pp. 32-36. Intorno alle stampe di Cerbino cfr. il Fiore di leggende cit., 
p. 380 e seg. Non se ne conoscono manoscritti; un’edizione è della fine del 
Quattrocento, un’ altra « forse del 1502 » (Molisi, Operette bibliografiche, 
Firenze, 1858, p. 184). Se ne ha una ristampa, anonima, ma curata da Teod. 
bandoni, nella Scelta di curiosità letter., disp. XXV. 

(2) L. Scara belli, La novella di Cerbino, nel Borghini, a. II, p. 236. 


Digitized 


zed by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
‘ URBANAtCRAMPARjNT 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


153 


« volar dello strale fischia nell’aria, ma lieve. E li nel verso è 
«tutta gran cosa di rintuono: arme, scoppietti e prie te ». An¬ 
ziché della prima metà del Trecento, il cantare per la lingua, 
lo stile, l’ottava si rivela opera dell’estremo Quattrocento; anzi, 
molti hanno voluto riconoscervi il fare del dicitore fiorentino 
Cristoforo, detto l’Altissimo, autore del Primo libro dei Reali 
in ottava rima e celebre improvvisatore in sulla piazza di 
S. Martino (1). Nè l’attribuzione è avventata. Basta scorrere il 
cantare per trovarvi a colpo d'occhio le mode e i vezzi cari alla 
poesia raffinata di quei precoci secentisti del Quattrocento (2); 
i paradossali contrapposti petrarcheschi, come Vardere e assi¬ 
derare del cuore (LXX, 8), le tirate retoriche, i giuochi di pa¬ 
rola, fatti sul modello di quelli di Serafino Aquilano, come il 
seguente (XCV, 1): 


Amore amaro, oh lasso!, i 1 moro, i" m'ero... 


L’invocazione alle Muse (I, 1), le fitte citazioni di favole mi¬ 
tologiche rivelano una penna posteriore non antecedente all'uma¬ 
nesimo, mentre la spezzatura del verso, il goffo giro della frase 
danno al cantare l’impronta ben chiara della mano dell'Altis¬ 
simo. Le enumerazioni di amanti celebri (XXXIV-XXXV), che 
pullulano nel Certi ino , sono frequenti nei Reali , frequentissime 
negli Strambotti ; le uggiosissime infilate di parole coordinate, 
come, per es., nell’ott. LXXVIII: 

... grotte, selve, boschi, monti, piani, 
e fiumi ed acqua e terra e rena e sassi, 
poggi, piagge, padul, burron, pantani, 


(1) Visse negli ultimi due decenni del Quattrocento e nei primi del Cin¬ 
quecento; cfr. G. M. Mazzcchelli, Gli scrittori (l'Italia, Brescia, 1743, voi. I, 
pag. 539. 

(2) Un « secentista precoce » è definito l'Altissimo da R. Renier, Stram- 
trotti e sonetti dell'Altissimo (Rarità bibliografiche e scritti inediti, voi. II), 
Torino, 1886, p. xliv. 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
-UftBANA-CHAMPAIGN 



154 


E. LEVI 


balze, campi, caverne, scogli e massi, 
luoghi deserti, ombrosi, alpestri, strani, 
sugher, castagni, querce, aceri... 

ricordano quelle consimili degli Strambotti. Eccone, per es., una 
identica (strami). XI): 

perdo e" passi, el servir, l'amor, la voce 
animo, stato, onor, carne, ossa, nervi 
et sol mi resta per amarti al fine 
pianti, sospiri, ardor, morte, mine (1). 

Anche la rima falsa Eco: stecco , che deriva da un partico¬ 
lare difetto di pronuncia (ott. LXXX). si trova tal quale in uno 
strambotto deirAltissimo (2). 

Non vi può dunque essere dubbio sulla paternità e sulla data 
del Cerbino. lo ho creduto bone di includerlo nel Fiore di leg¬ 
gende [XIIJ per dare un'idea delle opero, che si cantavano iti 
S. Martino a distanza di tanti decenni dal primo fiore della 
nostra leggenda, e uua prova della robusta vitalità della poesia 
tradizionale anche in pieno Rinascimento. Nell'opera dell’Altis¬ 
simo, dove abbiamo sorpreso tanti accenti classicheggianti, tanti 
echi petrarcheschi e della lirica cortigiana del Quattrocento, 
sono ancora ben forti e vive le tracce delle forme auticlie della 
poesia leggendaria. Le eleganze erudite dànno di gomito alle 
rozze ingenuità della lirica paesana. 

Leggendo, per esempio, nell’ott. LXXXV, i vv. : 

Amor ... m’accenna 
... ch’io debba la storia seguitare 
per dare esempio a chi seguita Amore. 

tornano subito alla memoria quelli della Donna de! Vergiù (I): 


(1) St. XI dell’ediz. cit. Renier. 

(2) Str. VII (ediz. Renier, p. vi). 


Digitized by 


Google 




Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
UH B ATJ A-L RAMPAI 


I CANTARI LEGGENDARI ITALIA* 


155 


0 gloriosa, o vergine pulzella, 

i' vo’ la grazia tua addimandare 

e dire ’n riina una storia novella 

per dare esse in pio a chi intende d'amare. 

E la sorpresa si accresce, quando nudiamo ai tempi del Bo- 
jardo e dell’Ariosto, squillare ancora, come sul bronzo d’una 
campana secolare, il rude verso della Donna del Vergili (LXVI): 

e partille la testa dallo ’mbusto 
il magnanimo duca, dritto e giusto! 

nell'ott. XCVI del cantare di Cerbino : 

el giustiziere un colpo con tempesta 
menò... 

e dallo ’mbusto gli levò la testa! 

La vecchia leggenda ha la vita tenace e non vuole ancora 
morire. 


XVII. 

Conclusione. 

JjASHt alle Vòlker untar gleicliem Kimmel 
Sich gleioher Gabe wohlgemuth erfreuen. 

Goethe. 

I<e numerose edizioni spicciolate dei cantari, che vennero in 
luce tra il 1860 e il 1880, non avevano altra pretesa che di for¬ 
nire dei « testi di lingua », cioè dei repertori di fidasi e di pa¬ 
role antiche. Lo studio dell’antica letteratura era puramente 
esteriore e formale, animato da uno spirito critico fatuo e cieco. 
« Si ricordi chi legge — scriveva uno di quei filologi — che in 
« autore di questa fatta sono da valutarsi le parole assai meglio 
« che le cose ». 

Mossi dal preconcetto che i testi antichi dovessero servirò 
di esempio agli scrittori moderni e che la lingua del Trecento 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
- tffi B AW# CHAMPAIGN 



156 


E. LEVI 


fosse «aurea» (quasi che il valore (l'un libro dipendesse dal 
tempo in cui fu composto e non dall’ingegno dello scrittore), 
quegli uomini si rallegravano delle parole oscure e rare, delle 
frasi sfuggite alla Crusca, dei costrutti contorti e sbilenchi che 
incontravano. Insomma essi amavano nella letteratura antica 
tutto quello che essa contiene di morto e di sorpassato e non 
prestavano attenzione a quello che i libri antichi recano di ve¬ 
ramente e profondamente importante, cioè la traccia delle leg¬ 
gende, dei sogni e dei miti che popolarono per tanti secoli la 
fantasia degli uomini. I filologi che andavano in visibilio da¬ 
vanti ai più deliziosi spropositi della parlata volgare, che si inte¬ 
nerivano di fronte alle parole, ignorando la letteratura medie¬ 
vale che sta dietro ai cantari, si dovevano adattare alla necessità 
umiliante di non comprendere quei testi che ammiravano con 
tanta ingenuità. 

L’importanza dei cantari consiste, più che nell’arte con cui 
furono composti, nella loro materia: la leggenda. Perciò, fran¬ 
tumando quella letteratura in molte edizioni spicciolate, gli an¬ 
tichi studiosi ne distrussero o almeno ne scemarono grande¬ 
mente il valore, mentre ricomponendo i cantari nella loro serie, 
come ho tentato di fare nel Fiore di leggende , si rende loro 
la luce necessaria e l’importanza originale. Quando ai cantari 
leggendari saranno aggiunti i cantari ciclici, i cantari classici 
e i cantari religiosi, noi potremo dire d’avere sott'occhio, in 
un corpus gigantesco ed armonico, tutto il tesoro fantastico del 
popolo italiano; ricordi, miti, leggende, visioni, tradizioni, odi 
ed affetti secolari. 

La pubblicazione del Fiore di leggende servirà a dimostrare 
che il popolo italiano non è stato per nulla estraneo all'elabo¬ 
razione della leggenda medievale, come si asserisce tanto spesso. 

La leggenda, come ogni altra forma del pensiero medievale, 
è cosmopolita e non conosce limiti di razza e di nazione. Del 
resto è assurdo parlare di letterature nazionali e dei caratteri 
etnici delle varie letterature durante il medio evo, cioè in tempo 
in cui lo spirito di nazionalità non era ancor sorto ed era an- 


Digitized by 


Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 

- OKBANA-LHAMfmbTT 


I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


157 


cora cosi incerto o fluttuante lo spirito di razza. Già lo disse, 
e in versi assai belli, Augusto Guglielmo Schlegel (1): 

Eins war Europa in den prossen Zeiten 
Ein V'aterland, dess Boden hehr entsprossen, 

Was Edle kann in Tod und Leben leiten, 

Ein Ritterthum scimi’ Kàmpfer zu Genoesen 
Fur Einen Glauben wollten alle streiten, 

Die Herzen waren Einer Lieb erschlossen ; 

Da war auch Eine Poesie erklungen, 

In Eineni Sinn, nun in verschiednen Zungen. 


« Una poesia sola in diverse favelle ». Contribuiscono alla for¬ 
mazione di quella poesia la fantasia orientale, il romanzo bizan¬ 
tino, il ricordo delle epopee nazionali, il vasto sbriciolarsi del 
mondo classico e il ricomporsi di quei frammenti in mille im¬ 
previste e bizzarre maniere. La poesia del medio evo è come 
una di quelle bizzarre cattedrali romaniche, che furono costruite 
sulle rovine dei templi pagani, con le spoglie delle divinità spo¬ 
destate, coi capitelli e colle colonne abbattute, con fregi e bas¬ 
sorilievi provenienti da mille altri edifici diversi. Noi ricono¬ 
sciamo benissimo la forma e l’arte di ciascuno di quei frammenti 
classici ; ma la linea dell’ edificio, che ne risulta, è nuova, ù 
strana, è fantasticamente bizzarra. 

La leggenda del medio evo è un mondo fantastico iu forma¬ 
zione. Crollano e si sbriciolano i miti pagani, le parabole giu¬ 
daiche, le vecchie epopee nazionali e nel vasto polverio di quella 
rovina si ricercano, si adattano e si compongono insieme i di¬ 
versi elementi della poesia europea. 

Soltanto assai più tardi, solamente uel periodo romantico, 
quando le giovani nazioni si compiacquero di vedere rispec¬ 
chiati nell’arte i caratteri del loro genio tradizionale e afler- 


(1) A. W. Schlegel, Pref&z. ai Blumenstraiissc ItaUiinischer, Spanischer 
unti Portugiesischer Poesie, Berlin, 1804, pp. 226-7. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



158 


K. LEVI 


Digitized by 


mati, persino nei tempi più lontani, i segni della loro indivi¬ 
dualità, allora soltanto dal grande fondo comune della poesia 
medievale, immenso e caotico tesoro, si cercò a gara di discer¬ 
nere quanto fosse esclusivo degli uni o degli altri, dei franchi 
o dei sassoni, degli iberi, dei celti o dei germani. Da quella 
brama di scoprire le origini nazionali e di impadronirsi con 
avidità del retaggio degli avi furono spiuti innanzi gli studi 
sulle letterature germaniche medievali e sulle letterature ro¬ 
manze (1). Nè quell’ardore animò soltanto filologi ed eruditi. 
Anche l'arte ne ebbe fremiti ed entusiasmi nuovi. Herder rac¬ 
colse le ballate scozzesi, Walter Scott ridiede vita al medio evo 
sassone e normanno, Tennyson ricantò le leggende tradizionali 
inglesi, Uhland e Fouqué quelle germaniche, mentre Victor 
Hugo porgeva l'orecchio aH’eco della storia e della leggenda che 
gli veniva dal fondo dei secoli. 

Mentre Oltralpe così si dividevano le spoglie e i territori 
dell’eredità medievale, l’Italia rimaneva indifferente e inattiva. 
1 nostri romantici, imitatori per pigrizia e forse per ignoranza, 
in luogo di risalire subito alle origini della nostra letteratura, 
e di rivendicare la parte nostra in quel comune retaggio della 


(1) Cfr. Gf.rthld Riohert, Die Anfànge der romanischen Philologie und 
die deutsche Romantik, Halle, 1914. — Gli studi sulla leggenda medievale 
sono in Italia, durante le scalmane e le baruffe romantiche, quanto mai po¬ 
veri e superficiali. Quel poco che si fece, lo si fece per chiarire l’epopea ca¬ 
valleresca del Boiardo e dell’Ariosto, cioè mirando più ai capolavori meditati 
e sicuri dell’arte ormai matura e cosciente della Rinascita, che alle oscure 
origini della poesia popolare. In mezzo all’universale squallore, bisogna però 
ricordare che nel 1819 il Foscolo compose il suo saggio Sui /toemi narrativi 
e romanzeschi italiani (Opere, X, 135), nel 1828 il Ferrano pubblicò la 
Storiti ed analisi degli antichi romanzi di cavalleria, e infine, che nel 1830 
Antonio Panizzi scrisse quel suo limpido « Essay on thè romantic narrative 
Poetry of thè Italiani- » che va innanzi all’edizione londinese del Boiardo e 
dell’Ariosto. — Ma quale significato, quale importanza ebbero questi lavori 
nella vita della nazione ? E sono paragonabili questi studi di pochi uomini 
solitari, queste troppo rapide intuizioni — quasi lampeggiamenti d'un pen¬ 
siero, che rischiarerà più tardi il uostro orizzonte — con l’opera gigantesca 
del Tieck, degli Schlegel, dei Grimm e dei romantici d’oltralpe? 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


159 


poesia medievale, si fecero senz’altro seguaci degli stranieri ed 
applaudirono a queU’usurpazione (i). E poi invece di ritemprare 
la nostra poesia nell’onda fresca della letteratura delle origini, 
popolarono la nostra fantasia di cose e personaggi a noi stra¬ 
nieri, bardi, selve, upupe e gufi. Dettata da un equivoco, la 
nostra poesia romantica fu poesia di maniera, nutrita di insin¬ 
cerità. Lo studio del nostro medio evo comincia assai tardi, 
quando l’era poetica e creatrice del romanticismo à finita, ed 
incomincia la seconda era, quella della filologia e dello storicismo. 

Ora è forse troppo tardi. La nostra avita leggenda sarà studio 
di eruditi, amore appassionato di pochi sognatori solitari, ma non 
rientrerà forse mai più nella vita fantastica della poesia ita¬ 
liana. Noi non avremo un Uhland, noi non avremo un Wagner. 

Per questo io vorrei che la mia parola fosse in questo mo¬ 
mento più sonora e piii vasta delle nostre consuete parole. E 
fosse la voce bronzea d’ una campana secolare, ora eh’ io dalla 
chiostra di queste pagine dischiudo l’eroica cavalcata delle Fate, 
il corteo prodigioso delle lontane leggende del popolo d'Italia. 

Ezio Levi. 


(1) Avrebbero mai immaginato i nostri facili ammiratori d’ogni importa¬ 
zione straniera che la leggenda di L<uly Godiva cantata da Tennyaon è pur 
quella del cantare fiorentino di Gismirante e che anche in una nostra leg¬ 
genda, nel Gibello, si trova uno dei tratti più caratteristici della leggenda 
del cavaliere del cigno, cioè «li Lohenyrin ? 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



160 


E. LIVI 


APPENDICE 


ai. cap. Il (l cantastorie). 

Un giullare del Trecento: Antonio da Verona. 

Alle « provvigioni » del comune di Firenze riguardanti can¬ 
terini e istrioni, fatte conoscere dal Novati ed ora rievocate uel 
secondo capitolo di questo volume, credo opportuno aggiunger 
questa curiosissima lettera, che si conserva nel cod. 3221 della 
Biblioteca Palatina di Vienna, c. 181 b. Il codice è di prove¬ 
nienza bolognese ed appartiene ai primi anni del secolo XV o 
agli ultimi del XIV. 

Litera familiaritati» factn }>er domino» Priore» Florentie cuidam hist rioni. 

Priores artium et Vexillifer Iustitie populi et comuni» Florentie Universis 
et singulis, ad quos hec nostra rescripta pervenire contigerit, debitam maio- 
ribus reverentiam, reliquis vero salatem et omnibus prosperitatem ac felices ad 
vota successus. Cum infinita» artes mortalium genus invenerit, quarum partem 
fore necessaria», partem utilitatem afferre et aliquas honeste recreationis de- 
lectationem gignere videamus, harum ultimarum non omnes decet esse cul- 
tores [nell'interi.: amatore»], sed illos [scilicet : decet esse cultores] precipue 
quos adeo virtutis habitus centra comunem modum evexit, quod ipsorum in¬ 
tuita non plus quam deceat offerantur, quosque merita supernique muneris 
dispositi») tali collocavit in statu, quod cum aliis provident, circumvolitan- 
tium occupationum strepitu comprimuntur, nani nisi multotiens alicuius nove 
voluptatis relaxentur alludi» crescentibus mentium nubibus, non solum tar- 
diores ad incuinbentium expeditiones, sedetiam plerumque minus utiles red- 
dentur. Hincantiquorum regum et principum more receptum est,ut musicum 
melos tant ore, tumfistulis tum resultantibus tìdibus regiis conviviis 
audiretur. Hinc histrionum non recusata comitas et admissa iam omnium 


Digitized by 


Goosle 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
-=eftBAN A-C H AM PAI GN— 



1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


161 


moribus et gcsticulationum muk-ebris varietà», et exliilarati principimi animi 
vegetiores ad agibilia convertantur. Kx quo nomini videri debet indignimi 
si viruin artis ludicre cetui familiarium nostromi» duximus aggregandum. 
Noveriti» itaque quod Magistrum Anthonium de Verona, virum equidem 
in agilitate inanuuin magiearum illusionum iniruni imitatore!» et aspicientiuni 
•oculorum aciem stupenda eeleritate, dum ea cimi quibus ludit eft'ert. permutat 
invisibiliterque recondit, frustrantem et aliorum plurium ludorum celeber- 
riinum artiticem et inagistrum, inter alio» familiares nostri palatii feeimus 
annotari. Et ob id ipsum cuntis tenore presentiuni literarum quas eidem in 
huius rei testimonium tradi fecimus comendamus. 


ai. CAI'. V (Il bel Gherardino). 


La bibliografia completa delle stampe e dei manoscritti delle 
versioni inglesi del lai di Lanval è data da Anna IIunt Bil- 
lixgs, A guide lo thè middle Enolisti Metrica!. Romance #, 
New York, 1901 [Yale Studies in Englisli, voi. IXj, pp. 144-159. 

Quanto a Parthenopeus de Blois, il Dunlop (IIistori/ of Prose 
fiction, new ed. by H. Wilson, London, 1906, voi. I, pp. 406 
e sgg.) afferma che la versione iberica originale è la catalana 
(t a ediz. : Tarragona, 1488) e la castigliana quella clic ne è de¬ 
rivata (1* ediz.: Alcalà, 1513). Tutto il contrario riferisce M. Me- 
néndez y Pelayo, Origenes de la Novela, Madrid, 1905, voi. I. 
p. cxLvm. Secondo il Menèndez y Pelayo l’edizione originale 
sarebbe appunto quella castigliana di Alcalà de Henares, 1513. 
e da essa proverrebbe quella catalana di Tarragona, 1588 (e 
non 1488): « A$y comen^a la generai bistorta del esfor^at ca- 
valler Partinobles compte de Bles, novament traduyda de llengua 
castellana en la nostra catalana ». 

Intorno alla saga di Parténopeus, e al poema francese, si ebbe 
nel 1901 un libro complessivo, che la critica non giudicò sod¬ 
disfacente: M. Kawczynki, Partenopea w de Blois , poernat fran- 
i ruschi z wiehu XII; streszczenic , rozbiòr i ohja&nienie , Cra¬ 
covia, 1901 | Bollettino dell’Accad. delle Scienze di Cracovia, 
n. XVIII|. Secondo queste ricerche il poemetto francese sarebbe 
stato composto a Blois nel 1153; ma W. Foerstcr ha dimo¬ 
strate infondate quelle asserzioni; cfr. Litteralurblatt fur gemi, 
und roman. Philologie, voi. XXIII (1902), pp. 28-33. 


Giornale storico - Suppl. n” 16 . 


11 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



162 


K. j.f.vi 


ai. evi*. VII (Liombruno). 


Alla leggenda di Liombruno accenna probabilmente anche 
l’Ariosto nei Cinque Canti. Enumerando le Fate nel 1 canto 
(ott. 26), l’Ariosto ricorda anche l amica di Liombruno, Aquilina: 


poi l'Aquilina e poi la Silvanella. 
poi la Montana e poi quella dal Corso, 
la Fata Bianca e la Bruna sorella... 


Cfr. L. Ariosto, Ojtere minori in verso e in prosa ordinate e 
annotate per cura di F. L. Polidori, Firenze, 1857, voi. I. p. 9. 

Il nome di « Liombruno » entrò nel Quattrocento a far parte 
dell’onomastica italiana; ricorderò quel bizzarro pittore manto¬ 
vano Lorenzo Liombruno de’ Leombini, che apparteneva alla 
corte dei Gonzaga (1489-1537). 


ai. evi*. Vili (Tre giovani disperati). 


Ludwig Tieck, entusiasta d’ogni forma spontanea ed ingenua 
«l’arte, tra gli infiniti temi leggendari che rinnovò e rinfresco, 
«•lesse anche la leggenda di Fortunato. Nel 1815-16 ne fece un 
dramma in cinque atti : Fortunat, Erster Theil, Fin Maerchen 
in fiinf Aufziigen. La bibliografia del libretto popolare tedesco 
del Cinquecento, Fortnnatus, ò data da K. Goedeke, Grundriss 
zur Gesc/t. (ter deutschen Dichtung *, voi. I, p. 354. 

Per il racconto dei Gesta Iiomanorum , cfr. Die « Gesta 
nomano rum » noeti der Innsbrueher Ilandschrift coni 
.1 altre 1342 und vier Munchener ffss. hgg. von \V. Dick, Er- 
langen, 1890 [Erlanger Beitràge zur Englische Philol., n° V1I|. 
pp. 94 e sgg. (cap. CXLVII). 


ai. cai». XIV (La regina d’Oriente). 


Appena giunge a Roma, la regin 
nel «castello della milizia» (I, ott. 


a d’Oriente viene ospitata 
36). L'imperatore, che va- 


% 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


16:* 


fileggia tristi disegni, rimprovera il maestro de' cavalieri che 
ha collocato la corte d’Oriente in luogo cosi munito e terribile: 


E disseti : — Tu hai molto fallito, 
che la reina ha' messa in tal fortezza. 


Intatti il « palazzo » o « castello delle milizie » era uno dei 
più formidabili editici della Roma medievale; esso giganteggiava 
sull’intera città, offrendo « al popolo fecondo argomento di favo¬ 
lose istorie ». Le famiglie magnatizie se ne disputarono il pos¬ 
sesso, poiché dall’alto di quelle mura ciclopiche si dominava 
l’immensa distesa di Roma. La torre, che ancor oggi ci appare 
una mole gigantesca, era nel medio evo assai più colossale; 
essa fu mozzata da un terremoto nel 1348. Anche nel cantare 
di Florio e Biancifiore i nobili genitori di Biancofiore abitano 
« nel palazzo della milizia » (st. 3“). Cfr. per tutto ciò Y. Cre¬ 
scisi, Il cantare di Fiorio e Biotici fiore, Bologna, 1880, voi. 1. 
p. 107 e sgg. ; voi. II, pp. 06 e 245. 


Giornale otorico — Suppl. n* 16 . 


11 * 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



i nsr dici 


1. Indice dei capoverbi dei 


CANTARI. 


Benché pe' tempi t ('abbia, Sif/uor mio , lieg. (l’Oriente, cant. 4°. 

Cavalieri e donzelli e mercatanti, Mad. Elena. 

Celestiale eterna maiestade, Reg. (l’Oriente, cant. 2°. 

Colui che da Giovanni ebbe il battemmo, Tre giovani disperati. 

Divina maestà, superna altezza, Gismirante, cant. 2°. 

Imperador de' regni sempiterni, Lioinbruno, cant. 2°. 

Intendete me ora tutti quindi, Pulzella gaia, cant. 1°. 

I' priego Cristo padre onnipotente , Gismirante, cant. 1° e Bruto di Bret¬ 
tagna (1). 

I' priego Iddio che ufi no a qui m'ha dato, Reg. d’Oriente, cant. .*1°. 

Io truovo d'una donna di Milano. Mad. Lionessa. 

4 

Ij) re Artu al cavaiier parlòe. Pulzella gaia, cant. 2°. 

O Gesù Cristo, figlino1 di Maria, Bel Gherardino, cant. 1°. 

O gloriosa, o vergine pulzella, Donna del Vergili. 

O gloriosa vergine pulcelìa, Gibello. 

Onnipotente Dio che ìiel del stai, Liombruno, cant. 1°. 

O padre, o figlio, o spirito santo, Bel Gherardino, cant. 2°. 

O sacre, o sante, o gloriose muse, Cerbi no. 

Superna maestà, da cui procede, Beg. d’Oriente, cant. 1°. 


(1) Cfr. qui addietro pp. 11$. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



16 <> 


K. LEVI 


2. Indice analitico (1) 


Albertano da Breccia, 109. 

Altissimo (Cristoforo di Giovanni da Firenze), 2, 20,81, 153; è l’autore del 


( 'evitino, 153 sgg. 

Ancelet, scudiero di Parthenopeus de Blois, 34. 

Andrea Cappellano. — Versioni italiane del Liber amoris, 109; tratto del 
Liber che £ fonte del Gismirante, 100; capitolo, che è fonte del cant. 
di Bruto, 103. 

Andrea ila Firenze, cantastorie, 8. 

Andrea di Goto daU’Ancisa, cantastorie lucchese, 11. 

• Angicourt |d’) Perrin, presunto autore della Chastelaine de Vergij, 69. 
Animali riconoscenti. — Cfr. Leggenda degli animali. 

Ansideo re di Valenza, personaggio della Bella Cumilia , 133. 

Antonio da Bacchereto, 19. 

— di Guido, cantastorie fiorentino, 2, 19. 

— di Pietro di Friano, referendario fiorentino, 18. 

— (di) Pucino da Pisa, 15. 

Apugliese; cfr. Ruggieri. 

Aquilina, amante di Liombruno, 46; è cit. dall’Ariosto nei Cinque Ca ì iti) 162. 
Argogliosa. amante di (libello, 55, 81, 82 e segg. 


Bambelina, amante di Amadio nel cant. della Bella Camino, 134. 

Randello Matteo — Nov. IV. 5, p. 74. 

Barberino (da) Andrea, 19, 18. 

— (da) Francesco, 9. 

Bel Gheranlino, 26 e sgg.; data, 27 ; autore, 28 ; argom., 29. 

Bella Camilla , origine, 133; fonte, 137; imitazione dei cantari del Pucci, 136. 
Bellicies, innamorata di Tristano e suicida per amore, 78. 

Benuceio barbiere, canterino di Firenze, 18. 

Boccaccio: nel Corltaccio cita il cantare di (ìherardino, 27; enumera altri 
cantari, 4. — Uecamer ., II. 9; p. 142; III. 10, p. 69; IV. 4, p. 149; IV. 
9, p. 70. 

Bologna: vi si cantano istorie nel trivio di Porta Ravignana, 6; e nella 
Piazza del Podestà, 5. 

Bonciani, Antonio di Cola, 19. 


(1) Il num. indica la pagina. 


« 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


167 


Braviate, città capitale ili Tarsiano, «cena «Iella leggetela «li (libello, 81. 
Broinpton Giovanni, 97. 

Bruto di Bretagna, 101 e sgg.; fonte, 108; ottava iniziale uguale a quella 
«li Gismirante, 113; ottava tinaie, 112. 

Buonarroti (de’) Casa: il ritratto «li Raffaello (n.XVI) «i suppone sia invece 
una rappresentazione della leggenda della donna del Vergili, 67. 
Burletta «Iella Diserta, amante della Gaia pulzella. 45. 


Cambragia, innamorata di Aniideo nella Bella Camilla, 134. 

Cantare dei cantari, 23. 

Cavaliere del Cigno; cfr. Leggenda. 

Cerbino, 149; nell’onomastica italiana dei secoli XIII-XIV, 151. 

Cluutelaine de Vergy, 62. Uy?4*ty 

Cliecco di Gherardo, referendario fiorentino, 18. „ v" lhL 

UNiVUfòJTy or ILuHUiS 


Dati Gregorio cita nella Cron. la Regina ^l’Oriente, 123. 

Davanzino (li Giovanni, proprietario di un codice del Gherardino, 26. 
Drusolina: storia di I>. nel Ld>ro di Fiora vante e nei Reali <li Francia, 89. 


FI e pia (Madonna), 140 e sgg. 

EIcpui imperatrice , 148. 

Fspinelo, romanza spagnuola affine per Pargomento al (ribello, 86. 


Fata bianca. 29. 

Feliciano Antiquario, autore della novella Justa Victoria , 144. 

Ferrara (da) M.° Antonio; due sue terzine cit. in Liombruno, 57. 

Ferrari Severino cita Liombruno in una poesia, 52. 

Fioravante : Libro di, 81, 88, 89. 

Firenze: piazza di S. Martino del Vescovo, 1, 2, 19; palazzo Davanzati, 73; 

casa Buonarroti, 67; i canterini di F., 17. 

Fortunatu *, 60; dramma di L. Tieck, 162. 


Gale re nt copule de li retruine (roman de), 85. 

Galvano, innamorato della Pulzella gaia, 43. 

Genitrisse, città della regina Argogliosa, 82. 

Geronimo detto Puccio, canterino, 18. 

Gesta Romanorum , 58, 61 ; data, 61 ; il ms. più antico, 62, 162. 
(ribello , 81 ; data, 90. 

Giovanni di Giorgio, 18. 

Gismirante, argomento, 93; fonti, 99; versificazione, 100. 
Giullari, 6 e segg. 

Godi va (Lady), 96 e sgg. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



168 


E. LEVI 


Grillili) (Fratelli), Kinder unti Hammdrehen, 49, 60. 
Griselda : cfr. Leggenda di. 

Guernieri, duca di Borgogna, 79. 

Guglielmo d’Oringa, 8. 

Guidaloste da Pistoia, giullare, 12. 


Higdon Iianulfo, 97. 

Histoire de Fortunatitx, 60. 

Huon de Bordeaux, 129. 

Ide et Olive (chanson d’), fonte della Re (/ina d'Oriente • della Bella Ca¬ 
milla, 129. 

Istoria di tre giovani disperati, 57. 

Kirkup, codice, 101. 

Knigton Enrico, 97. 

Lais: Fra ùnte, 83; sue propaggini italiane, 84. 

— Graelent, fonte ilei Bel Gheroni., 30; e della Balzella paia, 39. 

— Lanca!, 83; episodio tinaie, 41 ; versioni inglesi, 161 ; iberiche, 161; fonte 

di Balzella paia, 39; di Liomhruno, 47; del Bel Gherard., 30 e sgg. 

Leggenda degli animali riconoscenti nella letter. ital., 98; del Cava¬ 
liere del Cigno, 87; di Fortunat us, 60; di Lady Godi va, 96 
e sgg.; di Griselda, 86; di Ottaviano, 88; della ragazza guer¬ 
riera. 127 ; della verga di Odino, 138. 

Liomhruno. argom. del cantare, 46; nelle tradizioni jwpolari italiane, 51; 
citato nella letterat. ital. dei sec. XVI-XIX, 52 e 162; le ottave 40-41 
sono imitate dal cant. di M. Fletta, 141. 

Lionessa, 114. 

Lippi Lorenzo, cita la Rep. (l'Oriente nel Malmantile, 124. 

Lope de Yega, Felix, comm. Jxts porcele8 de Marcia, 86. 

Lucca: piazza di S. Michele, 11; canterini lucchesi, 10 e sgg.; M.° Angelo 
da Lucca, 12. 

Malapipi : cfr. Sala di. 

Mambriano, fratello della bella Camilla, 134. 

Marco bello, scudiero di Gherardino, 29; corrisponde ad Aucelet nel Barth. 
de Blois, 29. 

Margherita di Navarra. nov. LXX àe\YHeptam/ron, 74. 

Maria di Francia, 24 e sgg.; cfr. Lais. 

Mastrucei Filippo, autore di una frottola di Liomhruno, 52. 

Melior, amante di Parthenopeus de Blois, 34. 

Milione di Marco Polo, fonte della Rep. (l'Oriente, 139. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


109 


Napoli: cantastorie napolet. citati in un dialogo del Puntano, 17. 
Narbona: allusione alle storie narbonesi nel cant. di M. Elma, 141. 
Niccolò Cieco da Arezzo, 19. 


Ottonano: v. Leggenda. 

Ovidio: episodio delle Metani, die ha riscontro nelle leggende italiane, 128. 


Pagano F. M., Il Gerbino tragedia, 151. 

Palaus, castello della Fata Morgana, 44 e sgg. 

Palazzo Davanzali : affreschi del sec. XIV, 78. 

Parthenopeus de Bini a, 32 e sgg.; diffusione in Europa, 35-161; codice dei 
(ìonzaga, 36; fonte del Bel Gherardino, 32; e della Rey. d'Oriente 9 138. 
Pecorone, Xov. IV. 1, 115. 

Perugia: canterini perug., 16. 

Pier Canterino (Pietro di Viviano da Strove), 14; aut. della Beila Camilla, 133. 
Pisa: giulleria a P., 15; Pucino da P., 15. 

Poggibonsi (da) Niccolò, 139. 

Poitiers , Comte de (roman du), 143. 

Pula (da) Sergio, canterino di Firenze, 18. 

Pome dei Bei Fioretto , vi è cit. la donna del Vergili, 72. 

Puntano, 3, 17. 

Pucci Antonio: cantari a lui debitamente e indebitamente attribuiti, 77, 92; 

Fiorita di varie storie (zibaldone), 101, 110. 

Puleella del Lago, sorella della Fata Morgana. 44. 

Pulzella gaia, 36 e sgg.; origine. 37; argon., *18: fonti, 39; è cit. nella Sala 
di Malayiyi, 37. 


Reali di Francia, episodio di Prusolina, 88. 

Refiina (COriente, 121; data, 122; stampe e mss., 123; fonti, 125. 
Ricca, giullare, 18. 

Roberto dal Monte S. Michele, Cron. y 149. 

Romano (da) Cecilia, 120. 

— Ezzelino, tìglio di Mad. Immessa, 120. 

Rosciate (da) Alberico, 9. 

Rose (roman de la) oh de Guillaume de Dole, 146. 

Ruggieri A pugliese, 13 e sgg. 


Sabelo Michiel, cita nel Filogeo la donna del Verziere, 71. 

Sala di Midagigi, data, 37; cita la donna del Verziere, 71: Pulzella gaia e 
la Regina d’Oriente, 37, 122. 

Salomone nella leggenda medievale, 118. 

Schlegel A. W., 157. 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



170 


K. LEVI 


Shakespeare: Cymbeline e le leggende italiane corrispondenti, 148; Tht Mer¬ 
co nt of Yenice, 116. 

Siena: gialleria sanese, 12 e sgg.; cfr. Pier Canterino. 


Tarsiano, re di Bravisse, personaggio del (ribello, 81 e sgg. 

Tavola Rifonda’, vi è ricordata la Gaia Pulcella, 48. 

Tieck Ludovico, riduce a dramma la leggenda dei tre giovani disperati. 162. 
Trebinonna (la ’mperatricc) nov. siciliana della leggenda di Liombruno, 51. 
Tristano ricerca il ca]>ello doro di Isotta; uguale tratto è nel cant. di Gi¬ 
orni r ante, 98. 

— (il) riccard. riferisce la leggenda di Bellicies, 78. 
l'rraques, sorella di Mélior nel Partii, de Bioiti, 34. 

Vanto (il) nella letteratura leggendaria italiana, 141 ; vanto di Liombruno, 47. 
Verazzano (da) Fruosino, trascrittore di cantari, 15. 

Vergili. — La donna (del), cantare 62 e sgg.; data di esso,80; codici, 75; 
edizione, 75; passi .corrispondenti nel cantare di Cerbmo, 155; novella 
valdostana del sec. XIV, 80. — Cfr. la Chantelaiue de Veryy. 

Verino Michele, 2. 

Verona (da) Antonio, giullare, 160. 

Viola Bianca, innamorata di Amadio nella Bella Camilla, 1:14. 

Violette (roman de la), 143. 

Viviano (di) Pietro; cfr. Pier Canterino. 

Volterra (da) Michelangelo di Cristoforo, canterino, 15 

Westminster (di) Matteo, 97. 

Witrzburg (da) Corrado, autore del romanzo Pnrtonopier toni Meliur, 35. 

— (da) Rupreeht, 145. 

Zopparino di Benincasa, cantastorie bolognese del Trecento, 8. 


3. Indice delle tavole fuori testo. 


I. S. Martino del Vescovo (da un disegno a penna di Marco di Bartolommeo 

Postichi nel Seminario di Firenze, 1425). 

II. Il cantastorie (da due stampe del sec. XVI della Bibl. Marciana). 

ITI. La leggenda della donna del Vergili (Messer Guglielmo tentato dalla 
duchessa di Borgogna durante una partita a scacchi; affresco del se¬ 
colo XIV nel palazzo Davanzati di Firenze). 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 


171 


4. Indice dei capitoli. 


1. Introduzione ....... 

2. I cantastorie ...... 

3. I cantari ...... 

4. Il « Fiore di leggende »... 

5. Il Bel Gherardino . 

ti. Pulzella gaia. 

7. Liombruno. 

8. Istoria di tre giovani disperati e di tre fate 

1). La donna del Vergili. 

10. Gibello. 

11. Gismirante. 

12. Bruto di Brettagna . 

13. Madonna Lionessa. 

14. La Regina d’Oriente .... 

15. Madonna Elena. 

16. Cerbino.. 

17. Conclusione. 

Appendice. 





Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 










Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



SUPPLEMENTO N" 16. 



DELLA 




DIRETTO E REDATTO 

DA 

FRANCESCO NOVATI e RODOLFO RENIER 



TORINO 

Casa Editrice 

ERMANNO LOESOHER 

1914. 


Digitized by Goo 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 








• ' m 


* * V. I 


f?p riPp* ; # fi? ™' T*X' ' 










« V***S .*f ;' >V 






’ <nr 




avvertenza 








Tal 










ir 












Xon essendoci pervenuta in tempo per quest’anno la 
preannunciata illustrazione al testo inserito nel Supplemento 
n* 15, abbiamo creduto opportuno di far precedere nel Sup¬ 
plemento n° 16 rindagine critica e comparativa del profes- 








sore tizio Levi. 




LT -J - i 


La Direzione. 






ijt 



rt-V - - u ** * * 1 




giornale storico 


' <5 av 










'V* 


DELLA LETTERATURA ITALIANA 


1 






é '%>* 


« i | 


K r 


dirotto e redatto da 

F. NOVATl e li. REN1ER 


fi s 




jr # 






. If . „• - :*■ — • ^ * . . I . , f k V ,« • V 4» , • 

Si pubblica dal 1883 in fascicoli bimestrali di circa IO fogli di stampa ciascuno, 
■ 

in modo da formare ogni anno due volumi. 

' Li . • *S w ’ - !« vv •>. 3 . »y. A'.'L e >. T>J 




















V 




Condizioni d- Associazione : 

i. 4 ■ ' Per T Italia . 

Lf? 4 * 78: ‘ 

Per l’Estero 


per un anno L. 35.— 
per un anno L. 40.— 




v ' 












Le associazioni, a pagamento anticipato, si ricevono presso la Casa 
editrice ERMANNO LOESCHER di Torino e presso tutti i principali 
librai d’Italia e deireetero. 




it* 












M. 














Prezzo dei fascicoli separati, se disponìbili. 

Id. id. (doppi) id. id. .. 

Id. dei volanti id. id. (Voi. I .1 L) 

!d.\ id. > id. id. (Voi. LI-LXIV) 




Jv 


Lire 

. i*. 

* J 16.- 

. 17,50 


Id. del Supplemento N° 1 (1898) L. 5.—, del Supplemento N® 8 (1905) L. 5.— 












*V 





Td 

r f V- v*. • 

2 Id * A 




Id. 


:-v 


id. 
id. 
id. 
id. 
id. 

id. " 


•■ai 


N® 2 (1899) , 4,50, id. N® 9 (1906) „ 5.- 

N® 3 (1900) , 5_ , id. N® 10-11 (1907-908) „ 15.— 

N" 4(1901) , 5.—, id. N® 12 (1910) , IO.— 

N° 5 (1902) , 5.—, id. N® 13-14 (1911-912) „ 1S — 

N® 6 (1903) , 4,50, id. N® 15 (1913) , 10.- 
N® 7 (1904) „ 5.—, . id. N® 16 (1914) , 8.—‘ 


Prezzo complessivo delle XXXII annate pubblicate (Voli. 1~64) e 
|i|v - dei 16 Supplementi .L- 1®®®* 


-«a 


. — « A U 

Indice del primi 50 volami - Parte It Indice degli scritti firmati. 

Parte II: Indice della Bibliografia. . . ...... . . , L. 


32- 













Ifi&y 


$ 












Go 






«SIS < 55 

I; ìe* i S?* * jSfrJ 

a 1 v rP xS-j; * * 



V^t ^ *'Ty/•* T 

Lìi^aÉ^»MK^ài 


i ‘ r • *!/-- 








f'if — 










AL 


GIORNALE STORICO DELLA LETTERATURA ITALIANA 

-♦ 4 ♦ 

Della serie dei Supplementi, accolta con manifesti 
sei)ni di gradimento dagli studiosi\ sono finora uscite in luce 
le seguenti dispense: 

1° (anno 1808). — E. BERTANA, Il Parini tra i poeti giocosi del settecento. 
— C. DE LOLLIS, Sul canzoniere di Chiaro Daranzati . — G. PERSICO 
CAVALCANTI, Il epistolario del Gravina . — R. MURARI, Mariti Sana do 
e Laura Hrenzoni-Schioppo. — L. 5. 

2° (anno 1800). — E. LOVARINI, Notizie sui parenti e sulla vita del Ruzzante. 
— C. CESSI, Notizie intorno a Francesco Unisoni poeta laureato . — 
A. NERI, Giuseppe Baretti e i gesuiti. — L. 4,50# 

3° (anno 1000). — A. SALZA, Francesco Coppetta dei Beccuti , poeta perugino 
del secolo XVI. — L. 5» 

4° (anno 1001). — E. BERTANA, Il teatro tragico italiano del secolo XY'III 
prima dell*Alfieri. — L. 5» 

5° (anno 1002). — V. CIAN, Vivaldo Belcalzer e Venciclopedismo italiano delle 
origini . — L. 5. 

0° (anno 1003). — G. BOFFITO, Il * De principiti astrologate * di Cecco d'Ascoli 
nuovamente scoperto ed illustrato. — R. SABBADINI, Un biennio umanistico 
(1425-1420) illustrato con nuovi documenti. — L. 4,50. 

7° (anno 1004). — A. GALLETTI, L'opera di Viltor Hugo tirila letteratura 
italiana. — L. 5# 

8° (anno 1005). — A. FARINELLI, Appunti su Dante in Ispngna nell'età media. 
— F. CAVICCHI, Intorno al Tibaldeo. — F. PASINI, Un plagio a danno 
di Vincenzo Monti. — L. 5. 

0° (anno 1000). — G. GALLI, / disciplinati dell Umbria del 1200 e le loro 
laudi. — L. 5. 

10’ e 11’ (anno 1007-1908).— E. SOLMI, Le fonti dei manoscritti di Leonardo 
da Vinci. — L. 15. 

12° (anno 1910). — F. FLAMINI, Tra Vaichiusa ed Avignone. — L. 10« 

13° e 14 u (anno 1011-1012). — L. PICCIONI, Giuseppe Buvetti prima della 
‘Frusta letteraria „ (1719-1760): — L. 18. 

15° anno 1913). — S. DEBENEDETTI, Il * sollazzo „ e il “ saporetto „ con 
altre rime di Simotte Prudenzani d'Orvieto. — L. 10. 

10° (anno 1014) — E. LE VI, I cantari let/gendari ilei jwpvlo italiano nei secoli 
XIV e XV. — L. 8. 

TORINO — Casa Editrice ERMANNO LO ESCHER — TORINO 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 


Pubblicazioni della stessa Casa Editrice . 


FOSCOLO 


MANZONI, LEOPARDI 


S (A O I 


ARTURO ORAF 


AGGIUNTOVI 


PRERAFFAELLITI, SIMBOLISTI EO ESTETI 


LETTER ATURA D E LL’AV V EN1 R E 


(Ristampa) 


Un volume in-8° grande di pagine VI1I-487 

Prezzo : Lire IO. 


TORINO — Casa Editrice ERMANNO LOESCHER — TORINO 















LIWAKV 
Of THE 

UNtvtftiiflr Of ILUNUiS 


Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 



Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 






























































Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 




























Digitized by 


o 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN 








Digitized by 



Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 

lIRRANA-rHAMPAI^N 

























3 0112 106225326 




Digitized by Google 


Originai from 

UNIVERSITY OF ILLINOIS AT 
URBANA-CHAMPAIGN